
“Certamente nella sensibilità dello scrittore, immanenza e trascendenza si sovrappongono, si sfidano, e alla fine congiurano insieme per salvare o almeno lasciare sospesa la sorte dell’uomo e l’idea di una sua area vitale. Perché di questo si tratta, in ultima analisi: se ancora c’è per lui qualche possibilità di sopravvivenza, di testimonianza, di memoria postrema… Questa di Bonaviri è una ricerca di essenzialità tra nascita e morte, tra estinzione e palingenesi. E’ la brama irrefrenabile di volere esulare dalla civiltà e dalla storia e ridonare all’uomo la sua parte di comicità, d’infinitudine, d’incorruttibilità”.
Con queste parole Salvatore Battaglia nel 1971 sintetizzava con sapiente efficacia la sensibilità poetica di Bonaviri, in apparenza tramata di contraddizioni, ma comunque tese a riscattare l’uomo dalla sua natura limitata e finita; per fare questo, lo scrittore si serve, nei suoi romanzi, delle risorse, a ben dire limitate della ragione, per poi abbandonare il campo della logica, approdando alle regioni della metafisica.
E lo stesso vale in qualche modo pure per la poesia. Bonaviri è anche un poeta: il suo mondo è lirico, percorso da una continua esplorazione del mistero, del dolore, e, insieme, attraversato dalla ricerca della bellezza e dell’armonia dell’universo. Il poeta, fanciullo nel cuore, sa incantarsi al cospetto della natura, sentirsi vivo per gli affetti, inebriarsi per il misterioso parlare delle cose. La sua poesia celebra la magica sintonia con le galassie e le stelle, con i fiordalisi e gli ulivi, con le civette e le capre, e persino con i sassolini levigati dall’acqua del torrente. In questa inarrestabile danza cosmica, cui partecipano elementi del cielo e della terra, il fanciullo Bonaviri si abbandona a se stesso e s’impossessa pascolianamente dell’universo, sentendosene parte.
La scrittura poetica si risolve, nei toni allucinati e nell’interiore animazione dei personaggi, in una interminabile favola alitante dentro un poema cosmico che legge l’universo secondo una visione democritea e scientista. Per questo motivo non è possibile iscrivere la sua poesia all’interno di precise correnti letterarie. Bonaviri è autore di una sua “bibbia individuale”, di un corpus unicum che traccia un itinerario nei sotterranei dell’inquietudine umana, dove si innestano ossessive parentele tra tutte le presenze del cosmo: dalle stelle, ai venti, agli atomi.
Intraprendere questo viaggio è come esplorare uno strano arcipelago senza bussola né carte navigatorie; significa leggere il disagio di un uomo che non trova spiegazioni al mistero dell’esistenza e meno che mai a quello della morte, e così la sua anima, avida di risposte, è mossa da un irrequieto impulso di ricerca.
Anche nelle sue opere poetiche, Bonaviri utilizza con destrezza le sue conoscenze scientifiche; il suo tentativo di saldare, in continuità ideale, la cosmologia empedoclea con la fisica astronomica di Galileo e le teorie di Plank e di Einstein corrisponde all’impulso interiore di studiare gli oscuri fantasmi che si agitano nell’uomo. Per far questo, si serve di un metodo che è, allo stesso tempo, corrispondente e contrario a quello di Platone che situa l’anima umana tra le idee iperuraniche: i sassi, gli atomi, le radiazioni elettromagnetiche fanno viaggiare pensieri e sentimenti umani dentro i confini dell’universo materiale. Così, in una continuità di forme, lo scrittore trova un modo per scongiurare l’ossessione della morte: il respiro di tutta l’esistenza appare come una comunione segreta e fascinosa che il poeta evoca e ritualizza in una benefica liturgia.
Chi si muove agevolmente nei regni cosmici e terrestri è lo stesso Bonaviri che percorre una via letteraria dove non c’è tempo, storia o luoghi, dove il canto lirico è un segreto raccordo tra il sottosuolo dell’anima e l’incanto di un mondo terreno, paradiso immortale per l’uomo la cui vita è breve e disseminata di ansia.
Questo libero aggirarsi per i domini del reale e dell’immaginario, dove non esistono più relazioni di spazio e di tempo, comporta quasi inevitabilmente il ricorso ad un campo linguistico in cui le funzioni espressive, piene di allusiva stravaganza, si sposano con l’umile discorso quotidiano. Imprevedibili stilemi poetici, dissoluzioni lessicali, mescolanza di sfera arcadica e scientifica portano il lettore ad una fruizione fantastica e, nello stesso tempo, inducono a inquietanti perplessità. Ed è proprio nella poesia che spicca il gusto del vocabolo ricercato che, mentre designa e indica, si carica di una plasticità sensoria, creando percettibili immagini.
Tale linguaggio esprime il bisogno, da parte del poeta, di esplorare e di dare voce ad una nuova forma poetica, alla terrestrità delle cose, al flusso arcano e inafferrabile dell’essere, mirando, “oltre” l’umano e il terrestre, ad “una nuova modalità di scrittura che si fa arte e poesia”.
Questa cosmica terrestrità costituisce l’asse intorno al quale ruota O corpo sospiroso, una raccolta di poesie del 1982 edita da Rizzoli. Essa si apre, come la Bibbia, con una sua genesi:
In principio era la stradalunga / con mio padre sarto chino / sulla stoffa di
luna lucidissima / […] Era mia madre / che traeva pani / da ardentissime
fiamme / […] Era principio e giorno / sulle acque / e su Lucifero stella sorgente.
L’evidente ritorno a Il sarto della stradalunga, l’esordio narrativo di Bonaviri, ha qui valore mitico e cosmico: il teatro del mondo è la stradalunga e i confini dell’esistenza sono il padre e la madre, figure poste quasi a scandire come astri i tempi del giorno e della notte, a presiedere alla vita e alle opere creative. Infatti, carezzate forse da un occasionale richiamo, riemergono le fasi più centrali dell’esperienza personale del poeta.
Il titolo della raccolta individua subito il tema che sarà poi sviluppato al suo interno: il corpo appare l’ombelico dell’universo, ricchissimo e fragilissimo atomo pencolante in direzione del suo annientamento, colto mentre disperde in campi gravitazionali le particelle subatomiche di cui è composto. Come queste, tutte le liriche sono attraversate da un sottile fremito che si intensifica quando ci si sofferma sulla tematica della morte. La stessa dedica al padre, posta in epigrafe, ne è un esempio significativo: “A mio padre che nel nulla morto è atomi / e luminelle, e girar d’abissi”.
L’opera si presenta come un canto di umana angoscia per l’uomo che è soltanto “corpo sospiroso” in un universo destinato a scolorire come il giorno, nella triste consapevolezza che “non più canterà il gallo” , senza cioè un altro mattino. Come le foglie di Mimnermo che durano soltanto una stagione, il corpo-spirito bonaviriano è un breve sospiro di esistenza, più triste per quello che perde, che felice per quello che possiede.
O corpo sospiroso è il manifesto delle teorie antropologiche del poeta: il cosmo ha il suo centro nell’uomo, ne è il dispiegamento. Ma l’essere umano è segnato dalla morte che ne imprime sul corpo le sue espoliazioni, disperdendo sentimenti e ricordi nelle tenebre del non-essere. Il senso del rapporto vita-morte investe il mistero stesso del corpo, con il suo nascere, crescere, trasformarsi, morire e ri-nascere; “corpi” sono l’erba, le galassie, gli elettroni, il pensiero, l’uomo. “In te alberga il mondo” canta il poeta, facendo riferimento ad un corpo biologico con il suo peso portatore di morte, ma anche ad un corpo “sospiroso”, sede del pensiero e riflesso dello spirito che si trasforma nelle cose, eco amplificatrice dell’universo in cui entrano a far parte tutte le forme di vita, compresi l’umano e l’ultraumano.
Integrazione e assorbimento dell’individuo nell’universo mediante le metamorfosi del personaggio, la cui disgregazione significa proiezione dei propri ricordi nel mondo: questo è il seme da cui nasce O corpo sospiroso. La poesia Non più canterà il gallo ripropone i motivi dominanti, evidenziando la stretta connessione esistente tra i processi del nostro corpo biologico e quelli più complessi dell’universo:”In te alberga il mondo, / lo mondo alberga fino, / o mia erba silvestre, / e ruota galattica, e sodio, / per infinitezza d’elettroni vai / in barca tra equorei canti”.
Il paesaggio terrestre e celeste, umano e astrale, sconfina in una nuova realtà, in un oltremondo, in cui le cose rivelano i misteri della materia, che la poesia trasfigura in un nuovo rapporto del poeta con la natura. È la fusione di quelle due spinte antitetiche e complementari, la “terrestre” e la “celeste”, in una nuova forma di metamorfosi in cui, perduto il corpo biologico, non resta altro che il nulla, che lo scienziato Bonaviri chiama “buco nero”, facendo ricorso ad un linguaggio astronomico.
Il nostro corpo vive ed è immerso nel misterioso fluire del tempo:
“Ogni cosa / in nadir, e nel zenit d’astri / muove nell’infinito andare”.
Esso, infatti, è destinato a morire, ma è come se fosse in cerca di altri spazi in cui trovare il senso dell’umile quotidianità della vita. Si tratta, quindi, di una nuova forma e conquista dello spazio-tempo e, di conseguenza, di una nuova esplorazione del tema e del mistero della morte, motivo dominante in questa raccolta: è quella che Bonaviri chiama “linea tanatologica” , che assimila a sé la vita e la morte.
Ritornano, così, l’infanzia, il paese con le sue cantilene e leggende, la figura della madre, le feste sacre, i parenti. È una suggestiva dimensione dello spazio che si fa tempo, che fa riemergere un mondo sommerso, collegandolo a nuove realtà cosmiche. In tal modo si rompe, nella mistione e fusione del siderale e dell’umano, “la magmatica tela del tempo”: la fissità e la determinazione dello spazio si muovono in altre dimensioni temporali per valicare i limiti dell’umana terrestrità e sfociare in nuove possibilità di vita.
Ne Il calzolaio Michele, il tempo diventa un cavaliere antico che viaggia su una sella ricurva: “Sopraffà la sera il giorno, / e il calzolaio Michele, per chiarezze / di lesina e martello parla / del ciel settentrionale in novilunio, / del tempo che per corpiccioli d’itterbio / in suono di clarino / a sella in smeraldo va”.
E ne Il viaggiatore Langevin, il matematico, viaggiando nello spazio alla velocità del raggio di luce einsteiniano, raggiunge l’immortalità:
“Langevin lasciata terra con acqua verde / e i papaveri dov’è pallida la pietra, / per magnetiche faville di eventi-tempo / in moto velocissimo di luce fu / perfettissimamente in biondezza – oh lui / immortale tensore senza luccichii di vento! / Lasciò il dolce pensare il cotogno, fu / infrattanto il rigogolo in pianto”.
Anche in questa raccolta la personificazione del tempo si rivela un topos prediletto da Bonaviri. Infatti, in Arietta il tempo è un Dio, vecchio e stanchissimo che va in giro per il mondo “da 15 miliardi d’anni luce”. In Luce in forma di Y, invece, la sua figurazione si fa più complessa:
“O tempo, amoroso fuoco, ora vermiglio / e biondo nel tarassaco fiore, o tempo / smarrito e oscuro in bracci di galassie-nord, / o miliardi di tempo- spazio piangenti / in sassifraga e cardi, o figlio / nostro smarrito, ora concentratissimo in buco / nero, ora piccolissimo in tortile chiocciola, / o tempo giglio senza principio e fine!”
In questi versi, tutti gli esseri prendono consapevolezza del fatto che il tempo, inteso come divinità universale, non esiste più perché ormai è scisso in diverse dimensioni; dunque, essi volgono la loro attenzione alla materia che ha in sé infinite possibilità evolutive.
In Come fu ammazzato il tempo, esso viene poeticamente personificato nell’immagine dello scarabeo e scientificamente si identifica col movimento universale, o “spin”, che viene fermato dai personaggi ricorrenti nei ricordi di Bonaviri, producendo l’incanto dell’atemporalità:
“Ammazzato lo scarabeo tempo / non più in esatte rotazioni di spin, / il gallo
restò in bel canto, / la ghiandaia in perennità / all’albero lazzeruolo si unì, / io
stesso e la terra andante / per galassie a spirale fummo / tremolanti cristalli senza tempo”.
Molto più che nelle opere precedenti, in O corpo sospiroso il motivo del tempo si fonde con la memoria e induce il poeta a rievocare un passato profondamente simbolico, a risuscitare personaggi, fatti e situazioni di carattere memoriale e a farne simboli della coscienza umana. In questa raccolta Bonaviri arricchisce i suoi motivi precedenti e ne presenta dei nuovi, creando un’opera basata sull’idea del corpo come immagine simbolica del tempo e sull’idea del ricordo mitico-cosmico.
Il personaggio più tragico è l’orologiaio, le cui meditazioni sono così dolorose da condurlo al suicidio:
[…] “l’orologiaio seguiva l’ora porpora / dai cento gnomoni dipinti nei muri. / Suonarono i mille e un orologi / nell’armatura in vento, appesi / per corde e cordelle d’agave / al soffitto in fuliggine e nastri. / Nacque così in suono settentrionale / il tempo, in immisurabili mesoni, / dava pensiero a trecentomila mandragore, / l’orologiaio aveva in languire gravanza. / L’ora si cruccia e si duole / tutta in paura e senza bellezza, / o orologiaio in desìo di morte! / Così fu che quando le sette stelle / sparvero nell’errante alba, quello / s’impiccò in somiglianza di Dio, / il primo sole bianco gli oscillò in fronte”.
Il suo suicidio ha un valore simbolico: lui ha creato il tempo e il suo gesto, dunque, travalica i limiti cronologici per una immersione totale in un cosmico panta rei. E’ il panismo di Bonaviri in cui si realizza l’assolutizzazione dell’essere, per cui egli perde la sua identità per avvertire ed essere avvertito da miliardi di altri esseri, come anello di un processo che non ha un suo principio e una sua fine. Si realizza, così, lo sganciamento del poeta da ogni modello, dando luce ad un poema in cui il privato si dilata in espansioni continue, in onde che navigano verso i confini del cosmo.
Attingendo all’inesauribile patrimonio di storie e di leggende di cui è ricca la Sicilia, Bonaviri allestisce qui una sorta di cosmologia in versi, senza mai cadere nell’astrazione o nel concettualismo. Il poeta inchioda ogni minimo evento con una parola esatta e saporosa, estratta sia dal dialetto sia dall’italiano; sono parole che sembrano sedimentate di storia naturale e umana insieme.
Giacinto Spagnoletti, nell’acuta introduzione, afferma:
[…] “particolari di trascurabile entità assurgono a elementi portanti del quadro, non appena vengono in contatto con il vortice del cosmo. Pertanto una delle figure retoriche da aggiungere a quelle indicate è l’analogia fulminea, di cui Bonaviri è maestro. Trattandosi di un libro di metamorfosi, è questa la forma che viene ad assumere l’analogia, quando qualcosa ci viene indicata nell’ordine dell’infinitamente piccolo, con caratteri atomici e subatomici, che a sua volta l’occhio del poeta evidenzia assimilandoli a corpi e creature visibili”.

La poesia di Bonaviri è tra le più vive espressioni religiose del nostro tempo, se per religiosità si intende un amore equanime per il passato, il presente e il futuro; un amore che abbraccia i morti, i vivi e i nascituri in un movimento fulmineo e appassionato della coscienza, celebrando il mistero dell’uomo.
La tessitura linguistica è caratterizzata da una sorta di ansia onnivora che tutto ingloba, realizzando gli effetti espressionistici tipici della pagina del poeta siciliano, in cui gli echi della cultura classica, le voci arcaiche e le cadenze epiche si affiancano a locuzioni del parlato, al non sense e ai ritmi da canzone arcadica.
Lo stile di O corpo sospiroso è condizionato dal tema del ricordo, che domina l’opera. La parola è sempre parola ricordata. Per questo motivo, il poeta ricorre spesso a diversi usi linguistici della tradizione: ricca è la presenza di arcaismi letterari (“giallanza”, “devianza”, “soperchianza”, “pulzella”), del dialetto siciliano (“allumamento”, “collerella”) arricchito dai suoni delle cantilene popolari, della lingua araba (“ribèca”, “ribebè”, “rabàb”), mentre non manca l’impiego di parole tratte dal vocabolario astronomico-scientifico (“quarks”, “elettroni”, “positroni”, “ionizzazioni”, “spin”, “mesoni”). Questo amalgama linguistico produce una contaminazione di parole che dà luogo ad un’espressione concreta, quasi “corporale”. Infatti, Bonaviri attribuisce agli elementi dell’universo le caratteristiche dei corpi viventi: “col mio manto andrai come carnale pietra”, “bianchissima la campagna / era in addormentamento”, “s’infogliolivano le onde”, “la pietra piangeva”, “il fogliame fu pensoso” , “nel paese in meriggio addormentato” , “erba sanguinaria” . Così, si realizza l’idea di una parola intesa alla stregua di “corpo vibrante” di memorie, come ha affermato Rita Verdirame.
Lo stile si incurva in una continua torsione verso il passato, è innervato di una tensione memoriale: ne sono esempi le continue ripetizioni di verbi (“chiese chiedeva”), di sostantivi (“zefiro zefirello”), di aggettivi (“stanchissimo stanco”), la frequenza del polisindeto (“O corpo cristallo, / e rame, e Ore, e lago, / uovo triforme, e tempo”), dell’allitterazione, dell’enumerazione, dell’enjembement, dell’anafora e delle variazioni di toni stilistici. Tutti versi, questi, che imprimono un ritmo pulsante dando voce alle oscillazioni spirituali del poeta tra fiducia e sfiducia, razionalità scientifica e irrazionalismo, felicità e ironia.
L’attenzione rivolta alla natura non è mai generica, ma si esplica con l’impiego di una esatta nomenclatura enciclopedica; lo sguardo di Bonaviri non si posa mai distrattamente su piante e fiori, ma li nomina ognuno col proprio nome: “nepitello”, “blàndula”, “equiseti”, “eliotropo”, “serpillo”, “timo”, “tritio”, “arcano silfio e uta”, “polonio”, “croco” sono solo alcuni esempi di questa ossessione nomenclatoria. Dunque, è possibile affermare che il cosmo poetico dell’opera si alimenta di due componenti, quella scientifica e quella lirica, e dei loro corrispondenti linguaggi: enciclopedico e dettagliato il primo, fluttuante ed evanescente il secondo.
Nei versi di Bonaviri è calibrata una sorta di “miscela eclettica” che impasta l’enciclopedismo medievale, ed il suo gusto di nominare e catalogare lo scibile universale, con la linea popolare e giullaresca dei cantari in ottave. Ne deriva un cortocircuito lirico- scientifico del lessico e della materia secentesca che alterna scienza e alchimia, unisce il vago e il definito, coniuga la precisione con la voluttuosa dispersione magica nell’indefinito e nel misterioso.
Inoltre, è particolarmente interessante notare come, a volte, prosa e poesia sembrino integrarsi perfettamente nei versi. Le poesie sono, infatti, pervase da una forte istanza narrativa che si dispiega nella sintassi paratattica e descrittiva e attraverso l’uso di congiunzioni temporali come “quando” e “mentre”.
In O corpo sospiroso Bonaviri si serve di un tale linguaggio e di un siffatto stile per esprimere il nucleo vitale della sua visione del mondo: ogni cosa creata diventa, dopo la morte, un “corpo sospiroso”. Il corpo sospiroso diventa allora emblema di un’esistenza che non si piega più ai canoni rigidi della ragione, ma si espande e vibra nei vegetali e negli animali. Madre suprema è la natura che in forma allusiva imprime nel cosmo i segreti dell’umano cammino.
Così, i versi del poeta siciliano, con aperture fantasiose ma sempre lucidissime, per mezzo di una grammatica reinventata, riescono a vincere l’incubo della morte; la vita, infatti, si rinnova e gli uomini rinascono in schegge di luna, in laminelle di luce, in polvere siderale. Sorretto da questa consapevolezza, Bonaviri può ritrovare i suoi morti. La nobile missione che egli affida alla poesia è quella di riuscire a strappare la vita alla perentorietà della morte, attraverso gli incantamenti di una sintassi memoriale.
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