Hannah Arendt, I profili

Non chiamatela filosofa: chi era davvero Hannah Arendt?

«La mia professione, se si può considerare tale, è la teoria politica. Non mi sento affatto una filosofa»

Era il 1964, quando, durante un’intervista, Hannah Arendt sottolineava ancora una volta la tensione irrisolta che in lei scindeva irreparabilmente la politica dalla filosofia. Per troppi secoli, argomentava Arendt, la disciplina filosofica aveva analizzato l’individuo mancando di considerare, eccezione fatta per la filosofia socratica, il suo rapporto con la pluralità. È questo invece il filo rosso che accomuna i suoi scritti, frutto di un pensiero eclettico, applicato non con l’intento di giungere ad un indiscutibile punto di arrivo, quanto piuttosto come libero esercizio dell’io, che si manifesti in «un dialogo prolungato con gli altri».

Arendt nacque ad Hannover il 14 ottobre 1906, da una famiglia ebrea liberale, da cui ricevette un’educazione piuttosto atipica: non studiò l’ebraico, ma il greco e il latino, trascorrendo ore nella biblioteca paterna, ricca di testi filosofici di ogni epoca. Studiò a Berlino, e poi a Marburgo, sotto la guida di un giovane professore, brillante e innovativo: Martin Heidegger. Accogliendone la lezione per cui ciò che conta non è cosa pensare, ma come pensare, Arendt ne divenne allieva prediletta insieme ad altri grandi filosofi quali Marcuse, Gadamer e Jonas. Da quella vicinanza sbocciò una relazione amorosa, distrutta però dall’arrivo del nazismo: se l’uno infatti si abbandonò entusiasta alla visione hitleriana, l’altra, costretta all’esilio, denunciò la violenza, richiamando alla responsabilità collettiva. Scappata oltreoceano con il secondo marito nel 1941, restò un’apolide finché, dieci anni dopo, non divenne cittadina degli Stati Uniti. 

Il periodo americano fu quello più proficuo, in cui iniziarono ad emergere alcune delle tesi più controverse del suo pensiero, pubblicate sulla rivista Aufbau, su cui scrivevano peraltro anche Thomas Mann, Einstein e Zweig. Dall’incontro con gli intellettuali newyorkesi e gli esiliati politici europei emerse un sistema teorico, che tuttavia continuò ad essere applicato per analizzare la contemporaneità politica. Raggiunta dalle notizie dei campi di sterminio, Arendt iniziò ad indagare il fenomeno del totalitarismo, attraverso un’ampia documentazione storica fatta di fonti, riferimenti letterari e testimonianze. Nel 1951 vide così la luce Le origini del totalitarismo: un’opera all’epoca aspramente criticata, dal momento che in essa nazismo e stalinismo venivano considerati come due manifestazioni della stessa devianza. Arendt sfidò dunque il tabù dell’inconfrontabilità morale dei due regimi, fino ad allora irriducibilmente contrapposti, raccontandone l’avvento, non come un’improvvisa apparizione nella storia, ma piuttosto come un processo graduale, fatto di tappe comuni, in cui l’indifferenza e quindi la complicità della nazione davanti alle prime barbarie aveva giocato un ruolo fondamentale. 

Dell’imprescindibilità dell’azione politica nella vita dell’individuo, nel contesto delle nuove società di massa, Arendt discusse in Vita Activa, pubblicato nel 1958. La lucida analisi del totalitarismo, infatti, non si era conclusa in un’atmosfera di apocalittico cinismo; al contrario, è da essa che scaturì l’esigenza di individuare possibili percorsi che il cittadino potesse seguire per interagire con la pluralità pubblica e sociale. Solo così sarebbe stato possibile ridare dignità alla politica, insisteva l’autrice, riattualizzando modelli quali Montesquieu o Tocqueville. Al declino della politica, causato dall’apatia, dal conformismo e dall’individualismo, si oppone la riscoperta della felicità publica, raggiungibile attraverso mobilitazioni spontanee in cui siano gli individui a creare nuovi spazi di libertà; o almeno a provarci, così come era avvenuto nel 1956 in occasione della rivoluzione ungherese contro i carri armati russi. 

Dotata di indiscutibile coraggio e indipendenza intellettuale, Arendt seppe rapportarsi con lucidità con le proprie origini ebraiche; e ciò le attirò addosso non poche critiche. Già nel 1944, fece scalpore la sua posizione contraria alla creazione di uno stato israeliano, che secondo l’autrice non avrebbe risolto il problema dell’antisemitismo, ma anzi avrebbe calpestato la pluralità degli individui abitanti di quel territorio. Propose piuttosto la creazione di uno stato binazionale ebraico-palestinese: una soluzione del tutto eterodossa rispetto alla cultura sionista. A ciò andò ad aggiungersi nel 1963 la pubblicazione dell’opera per cui è ancora oggi conosciuta: La banalità del male (tradotto in ebraico soltanto nel 2000). Si tratta del resoconto del processo cui, nel ’61, venne sottoposto a Gerusalemme Eichmann, gerarca nazista responsabile del trasporto degli ebrei nei campi di sterminio. Spettatrice inviata del The New Yorker, Arendt offrì un resoconto puntuale dell’evento, concludendolo con alcune considerazioni più generali, che non mancarono di suscitare irritazione e sdegno nelle vittime della Shoah. Diversi furono i punti considerati all’epoca problematici, a partire dal tono ironico della narrazione. Se i lettori si erano attesi un dipinto di Eichmann che lo ritraesse come il diavolo in persona, il simbolo del demonio, l’autrice lo descrisse invece come un ometto ridicolo, volgare, incapace di pensiero autonomo, tristemente mediocre. Egli finiva insomma per rappresentare l’opposto esatto del buon cittadino che esercita la propria capacità di giudizio: il male è banalmente il frutto di un uomo incapace di discernimento. A destare scalpore fu del resto anche l’accusa lanciata contro i consiglieri ebraici, che senza ribellarsi avevano organizzato per conto dei nazisti gli stermini all’interno dei ghetti: una collaborazione tra vittime e carnefici che l’opinione pubblica forse non era ancora pronta ad affrontare. Infine, mentre molti accolsero con orgoglio l’idea di un processo a Gerusalemme, Arendt criticò anche questa scelta: Eichmann era stato un nemico, non solo degli ebrei, ma di tutta l’umanità, e come tale avrebbe dovuto essere giudicato da un tribunale internazionale. 

Hanna Arendt morì a New York il 4 dicembre del 1975. La sua ultima opera La vita della mente, cui aveva lavorato fino all’ultimo giorno, rimase incompiuta. La vera domanda, quella che dovremmo porci per ogni pensatore, è: cosa rimane oggi del pensiero di Arendt? A mio parere, tutto. Rimane la sua lucida analisi dei totalitarismi, e della connivenza della società che non si oppone; ma rimane anche la sua fiducia nella macchina politica, e nell’iniziativa del singolo. Figura eclettica, dotata di una sferzante indipendenza di pensiero, Arendt ha ancor molto da insegnare in un mondo fatto di dittatori e apatici. 

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