
Edito da Hacca nel 2018, Sonno bianco di Stefano Corbetta si presenta subito come una sorta di studio psicologico sulle intricate dinamiche familiari che si innescano a seguito di un evento che interrompe il flusso della normalità. La circostanza è data da un incidente che fa precipitare una delle due gemelle, protagoniste del romanzo, in uno stato vegetativo per anni. Bianca ed Emma, questi i nomi delle due sorelle, vissute in simbiosi fino al momento della disgrazia, si ritrovano forzatamente separate e questo allontanamento, dopo una forte scossa iniziale, plasma un nuovo legame tra le due ragazze. Ad essere sconvolta non è soltanto la loro vita ma anche quella dei loro familiari. Infatti, tutto il romanzo si srotola intorno ad un dolore muto coniugato con un presente assente e volto alla sopravvivenza psicologica dei personaggi. Una pena che trova tre interpreti diversi.
Emma, la sorella superstite, porta i segni di quell’incidente scolpiti in una gamba difettosa e in un ricordo che la tormenta. Ma lei è giovane e, nonostante tutto, la sua voglia di vivere le dà ancora il diritto di sognare e di sperare. Tuttavia, parallelamente, la sua vita si sdoppia: da un lato ci sono le aspettative, i desideri di una ragazza tesi a prendere il volo per potersi realizzare; dall’altro, è intrinsecamente legata alla sorella e condizionata da lei. Come se vivendo, volesse farlo anche per lei, per lenire i sensi di colpa legati alla sua salvezza, per darle quella possibilità di vivere che le è stata negata.
“Si salutarono con freddezza. Accadeva ogni volta che il pensiero di Bianca entrava nel suo orizzonte, e accadeva sempre. Un luogo oscuro, la morsa che in ogni istante le stringeva il petto e la gola e che lei cercava di addomesticare rovistando dentro di sé, spostando il cuore per metterlo al riparo, dove non poteva sentire dolore”.
Un altro modo di tradurre l’angoscia è rappresentata da Valeria, madre delle ragazze, chiusa in un silenzio opprimente, risucchiata in una voragine di non detti che urlano e che si concretizzano in un incedere meccanico della sua voce che ormai non parla, ma sillaba, non comunica ma dice.
Infine, vi è il padre, Enrico, fragile nella sua umanità, disperato e ferito nella sua vulnerabilità di padre e di uomo. Quel padre che “non entrava quasi mai nella stanza della figlia, teneva lontano i fantasmi nel modo più semplice e vigliacco, ignorandoli”; lui che non frequentava più spesso la figlia perché “per lui era come un rito funebre che si perpetuava ogni volta”. Un uomo rassegnato, consumato dai ricordi, dai sensi di colpa per non aver impedito alle figlie di andare in gita, scenario in cui è accaduto l’incidente; un marito impotente di fronte alla distanza che lo separa dalla moglie; un padre che pur di non perdere l’altra figlia, è disposto a lasciarla andare, a vederle spiccare il volo presso regioni oniriche ancora da esplorare. Tuttavia, nel suo cuore Enrico sa che “la vita è un atto di sottrazione e questo forse prescindeva dalla sua capacità di saper custodire ciò che amava”.
E poi, ad un passo da tutti loro, in un’altra dimensione dove è perso ogni contatto con la realtà, c’è Bianca che, sebbene inchiodata in un letto di ospedale, continua a vivere con prepotenza nella casa di famiglia, nelle immagini memoriali che affollano la mente di Emma.
E’ presente nella pagina narrativa, però, un filo invisibile che lega la fanciulla alla vita che non si vuole arrendere e che continua a spirare aliti di speranza. Il silenzio assente di Bianca aveva indurito tutti.
“Il silenzio era diventato la zona di confine tra il giorno dell’incidente e l’ignoto che ne era seguito, e quel confine si era trasformato in una terra sempre più vasta che si allargava come l’ombra dell’Ultimo Giorno e che aveva iniziato a prendere l’intero spazio della sua vita”.
Qui emerge con forza lo spauracchio di Valeria che di questo silenzio era terrorizzata, impossibilitata com’era a vincerlo, a superarlo.
Il testo è diviso in due parti connesse ad un prologo e ad un epilogo: il libro di Othi, dedicato ad Emma, la sorella sopravvissuta e il libro di Oth, destinato a Bianca e in cui manca fisicamente Emma. E’ interessante notare come i due nomignoli siano stati attribuiti a vicenda dalle stesse fanciulle quando, dopo una lezione di inglese, avevano imparato la parola other, che significa altro. E non sembra casuale che Corbetta abbia voluto arricchire la storia di questo particolare che sembra essere la chiave di comprensione di gran parte del testo. Difatti, il vocabolo indica che le gemelle, pur essendo ciascuna altro dalla rispettiva sorella, non possano esistere l’una senza l’altra.
Tuttavia, nella seconda parte, la maglia narrativa prende un’altra piega e si risolve a favore della impossibilità da parte delle sorelle di vivere contemporaneamente. Infatti, le pagine in cui progressivamente si assiste ad una lenta ripresa di Bianca, sono le stesse in cui, invece, scompare la figura di Emma che, per sua scelta, decide di allontanarsi definitivamente dalla famiglia e di rompere quel filo psicologico che la tiene vincolata ad essa. Il risveglio della coscienza dell’una si accompagna alla scomparsa dell’altra.
Emma non tornerà più lasciando un altro vuoto che continua a tenerla separata da Bianca in una condizione di irrealizzabilità di congiungimento, come se la presenza dell’una comportasse inevitabilmente l’assenza dell’altra, in un gioco speculativo ben architettato dallo scrittore. Emma aveva scelto il silenzio, filo rosso che innerva tutto il romanzo.
“Se con la sua assenza Bianca aveva rimandato la loro vita insieme […] Emma segnava invece la sua sottrazione. Aveva tolto ogni cosa di sé a chi la amava di più. Ai suoi genitori aveva tolto la sicurezza che almeno lei ci sarebbe stata sempre. Aveva tolto il fiato di un respiro libero e qualche linea di temperatura nell’aria di ogni stagione. Per questo rabbrividivano anche al sole, anche d’estate”.
L’ipotesi della perdita di Bianca devasta, apre uno strapiombo di solitudine che riassesta gli equilibri personali e familiari, ridisegnando nuovi orizzonti psicologici con cui dover fare i conti. Palesano nuove ed altre verità. Le assenze, i non detti, conquistano gli spazi vuoti creati dal dolore, diventando così le uniche presenze della narrazione. Il silenzio tinge l’anima e la carta, paralizza l’emozione e la parola. Il mutismo che scortica il loro mondo dalla vernice consolatoria, che ha colmato l’assenza di Bianca, assume un valore fondamentale, espresso magistralmente nel passo seguente.
“Li senti questi silenzi? Sono tutto. Senza il silenzio le note non potrebbero nascere e morire. E’ il silenzio che le eleva e gli dà vita, senza di lui non esisterebbero”.
In realtà, queste parole sono riferite all’importanza delle pause nella musica, altro tema importante nel romanzo, in cui ne viene espresso il valore salvifico e terapeutico, scientificamente provato. Questi pensieri sono anche rafforzati dal passato di musicista di Corbetta.
“Se una mano perde il controllo, cambia l’equilibrio, e così cambia anche il suono. Cambia tutto e poi non ci puoi fare più niente. Puoi avere un’altra occasione, è vero, ma quel momento non tornerà più. E sai cos’è? Dipende tutto dall’ascolto. Se sai ascoltare, non sbagli”.
Il procedimento narrativo tende ad analizzare con grande finezza psicologica i quattro personaggi nelle loro umane e impercettibili tracce umbratili, scrutando le increspature dell’anima e registrando parole e sospiri. L’armonia della scrittura rivela un naturale virtuosismo sfrangiato da ogni tecnicismo letterario e una scelta introspettiva già matura e controllata, così come lo stesso stile. Corbetta mette in scena un teatro del dolore umano, in cui il bianco dell’assenza, però, non è mai totale; lascia un’apertura, un barlume di speranza per una possibilità di rinascita.
2 pensieri su “Presenza, assenza e alterità in “Sonno bianco” di Stefano Corbetta (recensione a cura di Maresa Schembri).”