Fortran (Recensioni), Lorenzo Foltran, Recensioni, tempo (citazioni)

LA POESIA DI UN APOLIDE IN ESILIO: RECENSIONE DI «IL TEMPO PERSO IN AEROPORTO» DI LORENZO FOLTRAN (a cura di Vittorio Panicara)

È difficile accettare che l’attuale mercato riservi alla poesia solo un posto di nicchia, ma per fortuna ciò non ci impedisce di leggere una raccolta che rinverdisca, se non i fasti del passato, per lo meno il senso dello spaesamento del presente e la confidenza con i grandi temi. Una poesia, infine, sentita come una vocazione e che sia implicitamente rivolta all’universalità dei lettori. Se poi l’autore vive consapevolmente una situazione di esilio e di non appartenenza che gli consente un approccio privilegiato a forme artistiche svincolate dal mercimonio attuale delle lettere, la speranza di scampare almeno in letteratura al baratro del consumo fine a se stesso è fondata. È il caso di Lorenzo Foltran e della sua seconda raccolta poetica, «Il tempo perso in aeroporto» (Graphe Edizioni, 2021). Emigrato a Parigi, ha lavorato per importanti istituzioni culturali e ha pubblicato le sue poesie in varie riviste letterarie. La sua prima raccolta, «In tasca la paura di volare», è stata pubblicata nel 2018 da Oèdipus Edizioni.

Il coraggio di volare e l’oppressione del congedo

Che la realtà sia inafferrabile e che la poesia sfugga a ogni definizione è una sensazione, più che una convinzione, che il lettore ricava già dalla prima raccolta: dapprima l’ironia nei confronti della lirica d’amore (sognando donne sparse, / stanco di quelle vere), sentita come una maschera multiforme ed evanescente; poi la vita stessa declinata come illusione effimera, ma in maniera reticente ed allusiva; infine, l’assunzione del viaggio, della migrazione e della mescolanza delle lingue come alienazione nel gorgo del mondo e sfida esistenziale imprescindibile. Casa, patria sono parole vuote per chi, in tasca la paura di volare /di lavorare fino a sera, neutralizzato il senso del distacco all’interno di un io scisso, ritrova se stesso nel dire poetico. E in null’altro.

Nell’ultima parte della raccolta è preannunciato il tema di quella successiva:

Immensa consapevolezza
del tempo che passa,
di quello che resta.
Un biglietto di andata in tasca,
vuota, invece, l’altra.

L’esordio poetico di Foltran è stato considerato poesia “giovanile”, con argomenti attuali e linguaggio diretto (alicesogno.it): è un giudizio piuttosto riduttivo, dato lo slancio dell’autore verso tematiche più impegnative di quanto non sembri a prima vista e l’abilità che la versificazione denota, con reminiscenze letterarie a volte evidenti. Il poeta supera l’oppressione del congedo assumendo un punto di vista estraniato, non appartenente a nessuna chiesa, a nessun rimpianto, ed è preannuncio delle prese di posizione della seconda raccolta.

La tirannia del tempo

«Il tempo perso in aeroporto» prende le mosse da questo distacco, che è prima di tutto fisico e poi spirituale. Nelle prime poesie i cascami delle consuetudini sono il memento mori … di giorni senza calendari – questo il titolo della prima delle tre sezioni – e innescano un conto alla rovescia che ci porta al giorno zero dell’illusorio annientamento del tempo e delle distanze. L’io poetico evoca una realtà urbana e un amore mai rimpianti, narra il peso / dei ripetuti addii / di un apolide oppresso dal congedo che torna all’esilio. La chiave di volta di questo inizio è il riferimento a un esilio provato sia nello spazio che nel tempo, quando la “patria” lasciata dall’emigrante è quella del passato, con tutte le sue vane illusioni e speranze, luogo da visitare in quanto turista estraniato dal sé che era, e da un mondo, quello delle origini, abbandonato e ormai evanescente. Lorenzo Foltran nella vita è veramente un espatriato, esperienza che ha fortemente influenzato le sue scelte e impresso il sigillo della sincerità ai suoi versi. In queste prime poesie, dall’impianto tradizionale, si avverte non l’ardore dello sperimentalismo, ma la nostalgia delle forme chiuse e l’ansia di dire, come si nota nelle chiusure a effetto, qualcosa che riscatti ampiamente il quotidiano descritto all’inizio delle composizioni. Soprattutto «Mare nostrum» mostra un intento descrittivo che ben presto si stempera nel nodo alla gola del navigante che parte e che si guarda indietro, nonché nella coscienza dello smarrimento di se stessi. Ma il passato è liquidato per sempre, perché l’orologio è implacabile e non conosce pause; del resto, è l’unica maniera per non annegare in un presente disforico. Persino l’amore è una «Dimenticata visione», una finzione svelata alla luce della consapevolezza del poeta esiliato, memore dell’errare menzognero dell’eros. Ma si tratta di una consapevolezza che costa, un dolore che suscita l’iniziale autocritica del buffone poeta, che dubita dell’effetto rigeneratore dei suoi stessi versi. Non un processo lineare, dunque, quello dell’esule che abbandonando e accantonando il passato ha come l’impressione di rinnegare se stesso. Luoghi e paesaggi lontani sono ormai Oltre la cornice, come morti:

Giorni che più non sono,
luoghi semidissolti,
sentirli scomparire.
Esistenti a distanza,
città oltre la cornice,
in altri meridiani,
in scale differenti,
continuano a morire.

Da questo travaglio l’io lirico ne esce convincendosi che il tempo non ha mai fine. Il tempo dell’orologio, s’intende, non quello della memoria…

Fin qui Foltran, con i suoi paesaggi marini che richiamano alla mente i montaliani «Ossi di seppia», con la sua rete di metafore e le sue simbologie che dal particolare intravedono l’universalità della condizione umana, con la sua vis polemica nei confronti delle illusioni coltivate in passato (l’amore, l’appartenenza), esprime un’insopprimibile tensione verso l’assoluto, ma si tratta di una pulsione che ancora non dà luogo a una decisa presa di posizione, a uno stato superiore di coscienza. Lo scorrere imperioso del tempo lo conferma nel suo spaesamento di esule, apre spiragli ma non mondi montaliani da conquistare e proporre al suo lettore. Nei suoi versi alterna settenari ed endecasillabi (più incisivi e potenti i primi, più descrittivi o narrativi i secondi), affidando a studiate isotopie fonetiche, soprattutto con le allitterazioni e le assonanze, il rilievo da dare alle parole-tema e alle forme più pregnanti. La lunga narrazione degli endecasillabi di «Il giardiniere» conferma l’allusività degli stilemi di Foltran, che, nel momento in cui il testo si fa in apparenza trasparente e più leggibile, con toni quasi prosastici, mediante la concretezza delle immagini (i cimeli del passato, la polvere sui mobili, la potatura quale compromesso tristenecessario, le iscrizioni e le statue nascoste nel parco, il mesto ritorno a casa), cela ed esprime allo stesso tempo significati ancora una volta legati allo scorrere del tempo e alla vanità della vita. La focalizzazione sul custode del giardino e la cura di particolari riferiti nel loro portato valoriale ci ricordano Gozzano o Corazzini, mentre le piccole scene casalinghe di «Il respiro di casa», la poesia successiva, riecheggiano quasi un certo Pascoli, ma in realtà preparano la svolta della seconda sezione, basata sul concetto del sogno come rifugio:

La vita vera s’aggira nel sogno
e gli occhi tremano mentre si chiudono.
Così lo sguardo cerca di fissare
quelle costellazioni di sospiri
che figurano, infuocano la notte
con miti falsi d’altre traduzioni.
Invano cerco di abituarmi all’ombra.
Le stelle fisse dei ricordi sempre
scintillano, altre appena si intravedono,
destinate a cadere nel silenzio.
Scie di dolore, cadono, si spengono
come le lacrime alle prime luci.
Scelgo il riverbero dello scenario,
premo il pulsante e mi lascio dormire.

Lorenzo Foltran

Sognare, giocare…

«Giorni senza calendari» individua una tensione tra il distacco spazio-temporale dell’io e la stessa poesia, ancora inadatta a fornire, in aggiunta al disvelamento delle illusioni del passato, un punto d’approdo sicuro, che renda ragione del senso della vita, qualora ce ne fosse uno…  Gli ultimi versi della prima sezione, memori del rito proustiano dell’addormentarsi, preludono a un altro tipo di ricerca esistenziale, maggiormente legato in senso filosofico a un tempo, quello della coscienza e del subconscio, che sfugge alla gabbia del tempo inteso in senso positivista come processo del prima e del dopo, come “orologio”. Ma non si tratta del sogno tout court, ma di «Sogni interattivi» (titolo della seconda parte), che come tali abbelliscono e spiegano il senso di altrettanti videogiochi. Sì, non senza sorpresa Foltran introduce nel discorso poetico il digitale e il virtuale: i videogames riportati a livello onirico possono “fermare” o alterare il tempo, giacché colui che gioca può mettere in pausa i progressi compiuti, o addirittura resettare i suoi risultati se non è contento dell’andamento del gioco. In questo ambito e in questo senso i videogiochi sembrano sfuggire all’implacabile dittatura del tempo, e i sogni, loro ècfraṡi poetica, non sono soltanto il loro riflesso, ma l’estensione sottratta al conscio del principio di libertà. Una libertà fittizia, visto che l’autore sa bene quanto reale sia in effetti il virtuale, e quanto sdrucciolevole sia l’atto di rifugiarsi nel sogno. Ma in questa scelta così innovativa, che dispiacerà i lettori più tradizionalisti, si può ritrovare una sorta di “motore” che spinge sì l’analisi dell’autore verso ulteriori e amare disillusioni, ma che gli consente di tracciare percorsi nuovi e di approfondire, mediante il parallelismo tra il lavoro onirico della nostra psiche e l’effimero successo in un videogioco, lo studio del nostro male di vivere.

Già nella poesia eponima si avverte un cambiamento brusco che la seconda sezione della raccolta segna anche sul piano stilistico: citazioni colte e lessico specializzato di tipo tecnologico (croci direzionali, bit, texture, pixel ecc.), con accostamenti improntati a un’evidente ironia:

[…] Libri, letteratura digitale.
Nel mezzo del cammin della mia vita,
sono stato le donne, i cavalieri,
gli idraulici baffuti e i porcospini.
Incantevoli sogni interattivi,
giocati non su letti, ma divani.

Lo sperimentalismo di «Sogni interattivi» si esprime nelle frequenti creazioni fantastiche, basate paradossalmente sui più conosciuti particolari concreti dei giochi. Il Tetris, per esempio, ci porta a saltare ogni schema prefissato, prefigurando il caos e la fine, laddove di reale non pare esserci nulla; il timore della morte, sempre latente nelle nostre coscienze, viene così ad essere dimenticato per un momento, nell’illusione, supportata dal sogno, che esso sia irreale come lo sono i videogiochi. Certo, molti titoli sono improbabili, dato che spesso non solo sono in inglese, ma riguardano giochi non conosciuti dalla maggioranza dei lettori; in ogni caso queste conoscenze presupposte sono poco importanti per la comprensione dei testi. Affiorano infatti il senso problematico delle imprese eroiche, la lotta del bene contro il male, il desiderio di volare sulla luna, la paura dell’ignoto (un tramonto postatomico) e della morte (i cadaveri in una palude), i mostri e le paure inconsce che alla fine altro non sono che

[…] Reminiscenze, trame, filamenti,
ragnatele mentali che si tessono
brulicando negli angoli in silenzio.

È vero, questi sogni, essendo interattivi, sembrano marcare una vittoria contro il tempo e la legge deterministica che regola gli avvenimenti della nostra vita, ma, come spiega l’ultima poesia di questa sezione, «Continuare senza salvare?», basta un semplice risveglio per tornare allo spleen quotidiano. Ciò che resta è purtroppo solo un’eco, una colonna sonora a otto bit:

[…] Senza poter salvare, continuare,
salire di livello
non come “giocatore uno” ma come
“persona non giocante”

E noi siamo, appunto, persone e non giocatori, sicché l’oblio dei giochi interattivi rivela a un certo punto tutta la sua natura effimera. Tornando alla tirannia non scalfita del tempo.

E «Adesso»?

Dunque, la dimensione onirica può distruggere il tempo solo in apparenza, vale a dire nell’ambito del nostro io, veglia esclusa, in parallelo a ciò che avviene nei videogiochi. Sì, è una fuga dalla realtà, un’antitesi però non priva di una suggestione estetica, di una levità che in fondo non è pura negazione, tutt’altro, ma evasione legittima e profondamente umana. Lo si capisce subito con la prima poesia della terza sezione («Adesso»). Al sogno appena scacciato dal risveglio subentra il giorno di lavoro / passato e già futuro. È la rivincita dei tempi della vita e del lavoro, di un viaggio in treno, di un ufficio/circo marcato da un puzzo irresistibile, di sacrifici umani celebrati dalla divinità del lavoro in nome della rapacità padronale. Il linguaggio si fa rude, fino a dare alle scene descritte qualcosa di violento e surreale:

Il verme ci fagocita, ci mangia.
Arrancando secerne dalla bocca
costantemente bava, bile gialla.
Digerite le membra poi ci espelle
e continua nel solco che si scava.

Gli uomini di questa società dominata dalla competizione e dal libero mercato diventano così lo sterco di un verme, un nonnulla assorbito dai social e dai consumi (Acquisto, posto, esisto) e assoggettati al pubblico insulto per chi non corre in tondo come gli altri / e, uscendo dal percorso, si piazza ultimo.

La vita di un uomo non può prescindere da quella degli altri, dalle esigenze della società e dell’economia. Da qui un conto alla rovescia che sanziona tutta la nostra esistenza: servono «Otto minuti» per cuocere la pasta, allo stesso modo il passare del tempo ci avvicina alla fine. Colto dal rigurgito di questa vita, l’io poetico non ritrova più nulla, se non il dolore / di vivere morendo. Il buco nero della vita schiaccia l’angoscia contro sterno e costole, / torce, quello che forse chiamano anima. Nemmeno la fantasia di un suicidio può sollevarci dalla condanna senza rimedio di un tempo che ora ci esclude da ogni visione futura e da ogni ricordo, in quanto misura del lavoro che ci incarcera nel non essere della vita sociale. Si legga in proposito la poesia conclusiva dell’intera raccolta, «Adesso»:

Un conato, un rigetto mentre il corpo
si sforza a sopportare lo strano essere
in altro tempo, come se il passato
gli fosse appartenuto per un solo
momento, pochi istanti in altro luogo.
Il presente me l’hanno trapiantato.
Il corpo, questo corpo: sono un altro.
A morsi strappo la carne dal braccio.

La terza parte del libro annuncia così, dopo la pausa consolatoria di Sogni interattivi, la vittoria di un tempo divenuto ormai assoluto: il presente perenne dell’alienazione del mondo moderno. La durezza della conclusione e del suo tono, la consapevolezza a prima vista nichilista del poeta di non essere altro che parvenza desiderosa di annullare anche il proprio corpo, ci rimandano al titolo della raccolta, come se l’attesa in aeroporto fosse non solo simbolo, ma sostanza, ontologia negativa dell’essere umano.

L’esilio come fertile malinconia, o benaugurante disgrazia

Le tre sezioni fin qui presentate mostrano una grande varietà stilistica, dai toni meditativi e a volte elegiaci della prima, con i suoi artifici retorici (il tessuto fonico delle allitterazioni, i verbi all’infinito, le metafore continuate, gli ossimori ecc.), alle invenzioni della seconda, con la sua estrema varietà lessicale, allo stile deprecativo della terza, così aspra da rasentare la violenza verbale. Ma è a livello contenutistico che Foltran in tutta la raccolta rinnova il suo stesso discorso poetico, e le domande a questo proposito si affollano spontaneamente. Se la modernità è una prigione e il tempo è il nostro carceriere, quali risposte può darci la poesia? Qual è il suo ruolo? Difficile credere che Foltran, il poeta esule che vive giorni senza calendari le assegni un compito educativo, o di riscatto. Il fare poetico è in lui un bisogno di denuncia umana e sociale, umana nella prima parte, sociale nella terza, mentre «Sogni interattivi» rappresenta un momento di sospensione creativa, di fuga dall’aggressione del vivere insieme nel sistema della produzione a ogni costo, nell’artificio virtuale di un riposizionamento radicale, in cerca di un altrove che recuperi un senso di umanità e restituisca al tempo l’assetto che gli è proprio. Claudio Cugliandro nella post-fazione parla non a torto di “escapismo”, che in questo caso naturalmente non ha nulla a che vedere con il divertimento o con il disimpegno. L’impegno poetico di Foltran, se non esclude gli aspetti ludici dei videogiochi e il loro intrattenimento filtrato dai sogni, vuole recuperare ciò che è cultura e letteratura, prima che l’establishment lo alteri o lo corrompa del tutto. Ma soprattutto vorrebbe riappropriarsi del tempo, quell’ambito che va dal “non più” al “non ancora”, vasto territorio propizio alla reinvenzione dell’oblio, dove si consumano il passato e il presente e dove al futuro non restano che sogni o giochi (dalla prefazione di Jean Portante). L’attesa nell’aeroporto rappresenta quindi questa fase creativa in cui ci si può riappropriare del tempo e si può coltivare l’immaginazione, punto di osservazione dell’esule che come tale non patisce i condizionamenti dell’appartenenza e del passato ormai in rovina. Solo chi è precario coglie senza tante mediazioni la transitorietà dell’esistenza, la precarietà dei luoghi e dei tempi, dei ruoli e delle certezze, e nessuno è più precario di un espatriato volontario. Un ritorno, in un certo senso, al punto di partenza, a «Giorni senza calendari», ma con la consapevolezza rabbiosa che qualcosa occorre fare, ma non in un’ottica individualista, ma sociale. Il poeta apolide in esilio, in virtù di una benaugurante disgrazia e di una fertile malinconia, pone con forza l’esigenza di un rinnovamento collettivo soprattutto ma non solo culturale, non fornisce risposte perché non ne ha, ma analizza per noi lettori il tempo e denuncia le incongruenze della vita e il marcio della società. Se è vero che l’indagine estetica e il discorso poetico di Foltran non ci appaiono compiuti, è altrettanto vero che essi, nella ristretta nicchia a loro riservata, sono solo agli inizi.

LINK UTILI

https://de.scribd.com/book/504892981/Il-tempo-perso-in-aeroporto

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