
Parecchi anni fa, durante l’ultimo anno della facoltà di medicina, mi occupai di una paziente che mi è rimasta impressa. Stavo facendo il tirocinio di medicina interna, l’ultimo prima della laurea. Il mio supervisore, un medico dell’ospedale, mi aveva affidato in particolare tre o quattro pazienti. Tra essi, una raggrinzita donna portoghese sui settant’anni che era stata ricoverata perché «non si sentiva troppo bene». Le doleva tutto il corpo. Era sempre stanca. Aveva la tosse. Niente febbre. Polso e pressione sanguigna nella orma. Ma alcune analisi avevano rivelato un allarmante aumento dei globuli bianchi. Una radiografia al torace lasciava ipotizzare una polmonite, forse, o forse no. Così l’internista ne aveva disposto il ricovero, e adesso era affidata alle mie cure. Feci un prelievo di espettorato e di sangue e, secondo le istruzioni dell’internista, iniziai una terapia antibiotica per un’eventuale polmonite. Andai a vederla due volte al giorno per diversi giorni. Controllavo il battito cardiaco, auscultavo i polmoni, seguivo i test di laboratorio. Le sue condizioni erano sempre le stesse. Aveva la tosse. Non aveva febbre.
Atul Gawande, Con cura: diario di un medico deciso a fare meglio.