Federica Breimaier
Quando ci confrontiamo con un avvenimento su scala mondiale, come può essere una pandemia, tendiamo a definirne i contorni temporali riferendoci non tanto al calendario, quanto piuttosto alla nostra esistenza di individui. Pertanto, poche persone sanno che, almeno ufficialmente, la diffusione del Covid è iniziata il 1° dicembre 2019, giorno in cui comparvero i sintomi del male nel primo paziente conosciuto. Ciò che invece tanti ricorderanno è ciò che stavano facendo quando sentirono la notizia dell’arrivo in Italia del virus, con chi erano quando seppero del primo malato nella cerchia delle proprie conoscenze, oppure, come nel mio caso, qual era l’ultimo viaggio intrapreso prima che la mobilità globale ci fosse preclusa.
Per me l’inizio della pandemia ha coinciso con il ritorno dal mio ultimo viaggio, durante il quale, nell’ormai lontano febbraio del 2020, raggiunsi Ferrara per la presentazione de Un giorno senza sera, raccolta poetica di Roberto Pazzi, edita da La Nave di Teseo. Proprio in quell’occasione ebbi modo di chiacchierare, con questo scrittore visionario e vitale, di lettura, di invenzione poetica e di mode letterarie. Un incontro che è confluito nell’intervista Uno scrittore controcorrente a cui piace “correggere” la realtà: intervista a Roberto Pazzi. Ecco, considerato che ormai qualche incerto ma quanto mai bramato fascio di luce in fondo a questo tunnel pare visibile, ho pensato fosse opportuno, a distanza di un anno e mezzo, tirare le fila di questa strana esperienza che è stata la pandemia, proprio con l’autore che ho incontrato poco prima del suo dilagare. Roberto Pazzi è stato così gentile da accettare, anche se questa volta ci siamo dovuti accontentare di una chiacchierata digitale, lontana dalle suggestive pile di libri che riempiono di calore la sua casa, e tra le quali all’epoca mi fu impossibile non lasciar vagare l’occhio.

Mi piacerebbe iniziare la nostra chiacchierata con una domanda sulla tua città. Come i tuoi lettori già sanno, sebbene ligure di nascita, nato ad Ameglia, sei a tutti gli effetti ferrarese di adozione. Ecco, come ha affrontato la pandemia Ferrara? Come hai visto cambiare questa realtà comunale che ti ha accolto, e nel cui panorama culturale giochi un ruolo tanto importante?
Ma, vedi, per la mia città oserei dire che non si è trattato di un’esperienza particolarmente traumatizzante. Perché? Perché aveva ragione D’annunzio nelle Laudi: Ferrara è una città del silenzio. Anche se in realtà mi sono sempre chiesto se quella definizione lui l’abbia assorbita dall’atmosfera della Ferrara che lo accolse in quel 1895, e che quindi sia parte del DNA della città, oppure se sia stato talmente bravo lui da regalarle un tale destino proprio attraverso la sua denominazione. Comunque sia andata, per Ferrara il letargo imposto dall’arrivo della “serrata” non è stata una grande novità.
La “serrata”?
Sì, sai, mi piace chiamarla così perché in qualche modo riflette in sé la psicologia oblomovesca del ferrarese, che tende sempre a dormire, pacificato nel sonno dei sensi. Insomma, non sono uomini di grandi passioni, i ferraresi, quanto piuttosto di grande saggezza. Forse perché vedono la finita relatività di tutte le passioni, gli inarcamenti… C’è una mia poesia che lo dice, I campanili pendenti di Ferrara, dove appunto racconto di come qui i campanili cadono tutti giù, portatori, quasi, di un ammonimento a chiunque riveli una qualsiasi tensione all’ergersi. Chi si credono di essere? Noi dobbiamo tutti dormire lo stesso sonno della ragione!
Dunque, gli effetti della pandemia non hanno fatto altro che acuire un tratto caratteriale tipico del ferrarese?
Esatto, proprio così. Attenzione, però, che io lo dico con un grande amore per la mia città, rinvigorito, peraltro, da questa sua peculiare predilezione per la quiete. Non saprei vivere in quelle città moderne e nevrotiche dove si corre da tutte le parti, come topolini in gabbia o come criceti sulla ruota. In questo, preferisco essere antico.

Capisco. Ma parliamo adesso un po’ della tua esperienza: ti è mancato il rapporto con il pubblico?
Assolutamente, il rapporto con la carne! Con l’eros, con la vita: gli abbracci, i baci, il piacere dei sensi, la condivisione, l’allegria, la convivialità. Sai cosa mi è mancato? La dimensione matta dell’esistenza! Il dionisiaco! Io non ho voglia dell’apollineo: preferisco il dionisiaco!
E invece…
Invece con la serrata abbiamo fatto un’iniezione di apollineo. E non se ne può più: ce ne basterà per anni, d’apollineo. Saremo dionisiaci fino in fondo, d’ora in poi!
Però, dopo la presentazione del febbraio 2020, hai avuto modo di incontrare il pubblico in altre occasioni, vero?
Si, in effetti, sì. Pensa che il Premio Lerici Pea ha organizzato una splendida presentazione nei cantieri navali di La Spezia, rispettando ovviamente tutte le regole della distanza, in cui ho presentato la mia raccolta Un giorno senza sera a tutti i miei cari amici liguri; saranno state almeno 150 persone. Ti dirò, si è trattato di un evento molto suggestivo: sono stato accolto con calore in un luogo improbabile ma unico, con queste due enormi prue di navi che sembravano in procinto di salpare da un momento all’altro. Eravamo avvolti da un’atmosfera metafisica, quasi un quadro di De Chirico.
E poi… ho anche ricevuto il Premio Camaiore, ma non è stato un grande momento…
No?
Ma, guarda, i premi letterari rischiano spesso di dar luogo a delle ingiustizie, ma comunque non voglio soffermarmi troppo su questo…
Beh, però, proprio oggi hai pubblicato sul tuo profilo Facebook un post piuttosto scettico sulla cinquina del Premio Strega 2021 che, come dire, ha suscitato le reazioni più disparate.
Sì, perché il Premio Strega, lo sappiamo tutti… io, però, ho detto quello che penso. E, arrivato a 74 anni, mi guardo allo specchio e posso stimarmi di dire anche le cose che non è furbo dire. Perché le mie parole non hanno un secondo fine, se non l’amore per la verità. Ma alla lunga, ti dirò, anche questa tensione alla trasparenza viene premiata, da una certa… come si dice oggi? “audience”.

Tornando proprio alle parole, o, meglio, alla scrittura: cosa è stata la pandemia per lo scrittore Roberto Pazzi?
Per lo scrittore Roberto Pazzi è stata un’inattesa fonte di riflessione poetica. Ho composto tante poesie, alcune nate proprio all’improvviso: esplosioni fulminee, ispirate da una sospensione che definirei meravigliosa. Meravigliosa, perché in realtà, lo sappiamo tutti, ce lo insegna Saba: “un estremo di mali un bene annunci”. E in effetti ci siamo ritrovati immersi in una dimensione di riscoperta del silenzio, del raccoglimento, della lentezza, della meditazione. Finalmente godevamo di una sospensione della corsa pazza, in cui si passa da un desiderio che non soddisfa più a un altro che non soddisferà a sua volta, che è invece l’essenza della modernità. La vita ci ha offerto l’opportunità di riscoprire tutto ciò, l’hanno detto in tanti: non è stato del tutto un male. Bisognerebbe adesso farne tesoro, ma ho l’impressione che la gente non farà altro che buttarsi a capofitto nel vecchio ritmo di alienante confusione, commettendo gli stessi identici errori.
Bisogna dire che alcuni si sono ritrovati con molto tempo libero a disposizione, a casa, e si sono improvvisati panettieri o pizzaioli. Tu invece? Come è cambiato il tuo ritmo?
Non molto in realtà: la mia vita non era poi così diversa.
Quindi hai scritto. Ci puoi dare qualche anticipazione sulle prossime uscite, e sui progetti di scrittura che hai in cantiere?
Allora, purtroppo la mia vita, tu lo sai, è stata attraversata da una grave malattia, e se sono qui a parlarne, con tanta leggerezza, vuol dire che l’ho superata: è stata una grazia celeste. Io in Dio ci credo. Non so bene quale rapporto abbia Lui con noi, ma penso che qualcosa di ciò che ci accade gli interessi. Ad ogni modo, to ieròn, in greco “il sacro, il divino”, esiste, e credo di non esserci mai stato tanto vicino come quella notte in cui sono stato portato d’urgenza all’ospedale a causa dei dolori che provavo. Sono stato operato, per fortuna con successo: mi hanno salvato per i capelli. La malattia se n’è andata, ma la convalescenza è stata lunga. Però ne sono uscito, e piano piano ho recuperato anche quei 13 chili persi, e ora ho finalmente ripreso la mia forma.
Ora ti godi un po’ di serenità.
Esatto. E che piacere riassaporare la quiete dopo la tempesta: Sì dolce, sì gradita/Quand’è, com’or, la vita? Ecco, io sono in questa condizione beata di sentire che ogni giorno che passa è regalato, perché poteva non esserci. Ho ritrovato un amore struggente per la vita; l’ho sempre avuto, ma forse questa prova me l’ha restituito al quadrato. E ti confesso che, durante la convalescenza, avevo a noia la scrittura. I libri? Cos’erano i libri? Così come non amavo più i dolci! Io che sono un goloso terrificante, che si nutriva più di torte che di fiorentine, improvvisamente ho scoperto che non mi piacevano più. Ma tutto questo ha fatto parte ancora del malessere; poi il malessere è passato, ho ricominciato a scrivere, e a correggere il prossimo romanzo, che uscirà il 30 settembre.
Ci puoi dare qualche anticipazione su questa tua prossima uscita?
Sì, allora, in realtà si tratta di un romanzo che avevo già consegnato a Elisabetta Sgarbi un anno e mezzo fa; poi tutto si era fermato. Si intitolerà Hotel Padreterno, quasi un titolo cinematografico, vero? È la storia di un vecchio d’altri tempi, un po’ strano, distinto, con un borsellino nero, guanti gialli di pelle, e cappotto cammello. Si aggira per Roma, in metropolitana, dove incontra un bambino dai capelli rossi, cui è dedicata la copertina del libro, raffigurante l’Angiolino musicante di Rosso Fiorentino. È molto curioso, questo bambino, e chiede al vecchio quanti anni ha, e lui gli risponde che non lo sa, perché non è mai nato. “Ma come non lo sai?”, si stupisce il bambino, sospettando che quell’uomo lì sia un po’ fuori di testa. Ma il vecchio un po’ fuori di testa non è altri che il Padreterno, che stufo e tremendamente annoiato di starsene con gli angeli e i Santi in paradiso, ha deciso di nascondersi in un malconcio albergo a due stelle a Roma, dove spia la vita degli italiani.
E perché proprio gli italiani?
Eh… perché lui è incavolato, con gli italiani. Non fanno più figli, ignorando il suo “crescete e moltiplicatevi”; l’orologio biologico si è fermato e lui vuole capire perché. Così realizzerà che però questo non vale solo per gli italiani, ma per molti altri popoli. Nondimeno, nel frattempo gliene succedono di tutti i colori a Roma. Ma non ti posso raccontare altro, se no rivelo troppo…
Trovo davvero interessante l’idea di ambientare la vicenda in un albergo da due soldi, andando, immagino, a creare un contrasto tra il divino e la natura umana più lontana dai consueti fronzoli dell’eleganza e del perbenismo.
Sì, proprio così. Perché in questo hotel molto scassato c’è uno straordinario campionario di umanità: prostitute di lusso, attentatori in odore di Al Qaeda che si preparano alla prossima missione, coppie che si incontrano lì a ore, turisti giapponesi in viaggio di nozze. Insomma, c’è la vita. Ma non la vita nella sua più elegante antologia, quanto piuttosto quella più sfaccettata: e infatti succede che il Figlio del protagonista si arrabbi, come del resto i Santi, che prendono quel suo soggiorno terreno come un’offesa. Poi tra padre e figlio scoppierà una grande lite. Vivendo vicino alla famiglia del bambino con i capelli rossi, il primo si innamorerà di sua madre, e ciò lo porterà a provare gelosia verso il proprio figlio, cui invidia il vigore dei trent’anni e la tensione verso il piacere dei sensi. Ma adesso, davvero, non ti dico più niente.

Va bene, però prima ci accennavi anche alla stesura di un altro lavoro, questo ancora in corso d’opera, se ho capito bene.
Sì, in effetti, l’idea nasce dalla riflessione sulla “toccatina della morte” come la chiamava Pirandello, ossia dalla consapevolezza che mi aveva sfiorato la fine. Una realizzazione che, come detto, mi ha regalato uno sguardo diverso sull’esistenza, meno frenetico: mi sentivo liberato dall’affanno di passare da una cosa a un’altra, portato ad un nuovo atteggiamento contemplativo, assolutamente privo di fare, tutto di essere. Attraverso questo percorso, sono giunto anche alla serena accettazione del nulla, rinunciando alla proiezione eroico-individualistica e narcisistica dell’oltretomba, tipica del cristianesimo. In questo lavoro ho messo insieme la mia passione da bambino per i Santi, che corrisponde poi ad una proiezione verso l’eroico, e quella, anche tipica della mia infanzia, per i protagonisti dell’Iliade: ho accostato Sant’Antonio con Achille, Santa Gemma Galgani e Atena, Santa Teresa d’Avila con Era. Alla fine ne verrà fuori un’autobiografia, in prosa e in poesia, poiché ho capito che le 217 poesie che ho scritto in Un giorno senza sera sono la mia biografia, così talvolta inserisco nel testo un’opera in versi che diventa esplicativa di quello che sto cercando di descrivere in prosa.
Quasi un pastiche postmoderno, insomma…
Può essere. Io poi, sai, affido ai critici la definizione di quello che faccio: non è compito mio.
Quindi tu credi nella divisione tra critici e scrittori?
Io penso che, se uno sa troppo quello che fa, non lo fa più. Se uno non lo sa del tutto, lo fa. Cioè, io non amo sapere il perché di quello che faccio e di quello che sono: se no poi mi fermo. Al contrario, voglio continuare a conoscere le forme della vita andando a tentoni, come a mosca cieca. Vedi, è la visionarietà contrapposta alla vista, la stessa differenza che c’è fra la lettura e la televisione.
Oltre però ad andare avanti con la tua opera, ti stai anche impegnando per far risorgere il palcoscenico culturale di Ferrara, giusto?
Sì, e sono molto entusiasta di poter partecipare attivamente ad uno dei momenti di risveglio della mia città, durante il quale ho peraltro la possibilità di realizzare un mio antico sogno. Un sogno che mi fu inspirato dal gesto di Carmelo Bene, che il 31 luglio del 1981, a un anno di distanza dal massacro fascista del 2 agosto alla stazione di Bologna, dall’alto della Torre degli Asinelli, lesse la Divina commedia, davanti a centomila persone. Ecco io ho sempre sognato di poterlo emulare, leggendo l’Orlando Furioso dall’alto della torre del Castello Estense di Ferrara. Avevo proposto il progetto all’amministrazione precedente, che però all’epoca non mi ascoltò. Poi ne ho riparlato sui giornali e questa volta l’idea ha raggiunto orecchie attente. L’amico Vittorio Sgarbi, infatti, cui va tutta la mia gratitudine, ha fatto sua l’iniziativa, convincendo l’amministrazione comunale a realizzarla. Così, la sera del 24 giugno, leggerò alcuni estratti dell’Orlando Furioso, mentre Moni Ovadia, che mi affiancherà, reciterà una selezione di mie poesie, tratte da Un giorno senza sera. Il tutto, dopo un’introduzione di Vittorio Sgarbi.

Cliccando sull’immagine si può accedere al sito per prenotare un posto all’evento.
Un programma davvero interessante, per cui ti vedo molto entusiasta.
Lo sono, lo sono. E ti dirò la verità: non riesco a dormire la notte. Come quando andavo in viaggio al mare, a Bocca di Magra, da bambino, e tre giorni prima della partenza non riuscivo a chiudere occhio dalla gioia!
Chiuderei qui l’intervista, cari lettori, ricordandovi che a settembre sarà possibile preordinare Hotel Patreterno, quindi tenete d’occhio i vari siti d’acquisto! Ma soprattutto vi invito a partecipare a quella che si annuncia una straordinaria serata di arte e letteratura a Ferrara. Per farlo bisogna prenotarsi (ci sono ancora dei posti liberi!) seguendo le indicazioni del volantino qui riportato, oppure consultando questo sito: https://www.teatrocomunaleferrara.it/events/event/astolfo-sulla-luna-alla-ricerca-del-senno-di-orlando/
7 pensieri su “«Il 24 giugno realizzerò un mio antico sogno»: a Ferrara, la cultura riparte da Roberto Pazzi.”