Brullo (recensioni), Davide Brullo, Le stroncature, Recensioni

Elogio della stroncatura

di Gerardo Passannante

“Il peggio della letteratura italiana (o quasi)”: così recita il sottotitolo di Stroncature, il pamphlet di Davide Brullo edito da GOG, che letizia una nutrita schiera di autori con lucide e impietose bocciature, sempre gustosamente motivate. Per doverosa premessa aggiungo che esse vertono prevalentemente su titoli dello scorso anno, specificati in calce a ogni recensione, ma che evito di riportare qui. 

     La passerella esordisce col principe della fuffa, Alessandro Baricco: una specie di Vincenzo Mollica della narrativa, che condisce il tutto con un eccesso di aggettivi; ma che dei propri libri, con curioso coming out, ammette che “stanno alla letteratura come il fast food alla cucina francese”. Procede con Stefano Benni, compilatore di un manuale per atei in andropausa, buono da usare come fresbee da spiaggia. Si rammarica che Aldo Busi, pur non schifando l’ipotassi come tanti indigenti colleghi, ne trae uno sbrodolone di piagnisteo da ospite di una RSA. Si sconforta davanti a Andrea Camilleri quando sciorina “minchionerie da cabaret di terza categoria”, condendo pasta con sarde ammuffite e cannoli con ricotta rancida. Impallina in Gianrico Carofiglio l’impavido sfornatore di casi fasulli, narcotizzati dal buoncostume della banalità, facendo il paio col collega De Giovanni, capace di ammannire ai suoi lettori medio bassi, boccheggianti sotto l’ombrellone, tutti i cliché del poliziesco, in un idioma ripetitivo e logorroico.

     Né le cose vanno meglio col gentil sesso. A partire da chi tanto indegnamente ci rappresenta all’estero, Elena Ferrante: incrocio mal riuscito tra Cosmopolitan e Grazia Deledda, che canta con scintillii di sciocchezze la banalità del bene. Ancora peggio mi sento con Chiara Gamberale, abile a snocciolare sulla maternità chiacchiere notevoli per assenza di pensiero; o con Michela Murgia, che sciorina viete tautologie in una scrittura inodore e incolore; o con Stefania Auci, per cretineria formale emula di una soap anni ‘80, in bilico tra il rotocalco rosa e Novella 2000.

     Quanto ai bellocci della penna, il parroco della letteratura Alessandro D’avenia spruzza un po’ di Chanel n.5 per ammansire il fetore letale dei suoi amorazzi e renderli fruibili ai suoi unici lettori possibili, i suoi alunni. Paolo Giordano, pago di aver azzeccato solo il titolo di esordio, ci immolla nella nenia di una placida pappa letteraria, mentre Marco Missiroli solleva tutto un incendio sull’idiozia del tradimento che fortifica la fedeltà, in tale stile vintage e inautentico, da meritare di diritto la sanzione dello Strega! Né sarebbe invero un gran male spintonarsi per accaparrarselo, se appunto esso certificasse qualità e non titillamento dell’ego, e non incensasse solo cariatidi, al punto che vincerlo è una disdetta… considerando che ha aureolato in Francesco Piccolo il cantore di una biografia adolescenziale, risolta, se nomen est omen, in un diario di polluzioni notturne; ha deviato Paolo Cognetti sulla patetica vulgata neoglobal, neohippie e fancazzista; e ha persuaso Antonio Scurati, già di suo incline a una scrittura geneticamente monotona, ad allineare in blanda cornice stucchevoli spunti da Wikipedia, per l’immane docufilm sul Duce, dal quale, ahilui! è stato invece vampirizzato!

     Ma c’è ancora una categoria che il furor destruens di Brullo non risparmia: ed è quella dei giornalisti-scrittori, sui quali scarica non meno grevi mazzate. Che atterrano Di Paolo, Lucarelli, Raimo, Scalfari, Serra, senza risparmiare nemmeno intoccabili come Alberto Angela (a cui, pur riconoscendone le doti di divulgatore, Brullo rimprovera di essersi lasciato andare a imbastire un polpettone soft porno censurato persino nel più ovvio degli Harmony); o Augias, Battista, Cazzullo, Citati, Odifreddi, Galimberti (il matusa che finge di dare la parola ai giovani); per finire in bellezza con quel piacione di Recalcati tanto amato da casalinghe disperate e quarantenni rampanti, insieme a Saviano, che, incapace a sciogliere il dilemma di Buridano tra essere giornalista o scrittore, si sbriglia in macchiette da pummarola western… E così via con altri meno illustri blasonati…     

     Davanti a tale micidiale ecatombe, la domanda che sorge spontanea è: perché tanta inclemenza? Cosa accomuna questi autori, oltre al bacio del successo? È esso, dunque, a suscitare il livore di un rosicone annaspante nel limo? Sembrerebbe questa, ed è, la risposta scontata. Ma basta appena affondare un po’ le pupille negli interstizi del dettato, per accorgersi che queste stroncature nascono invece da un disagio fortemente impregnato di etica culturale. Poiché Brullo, che con Mowgli condivide la spavalda ingenuità di muoversi da solo tra il branco, mira in realtà a stigmatizzare la mercificazione di una attività alta e nobile, quale la letteratura, scaduta a corporazione di basso profilo, vuoi per penuria di talento che per egolatrica spinta esibizionistica. E in questi autori, così eloquentemente prostrati all’introito e all’immagine, addita i pinnacoli di una tendenza che scambia le coordinate estetiche con le fregole del mercato, e i proventi col merito. 

     Ma di chi è la colpa di questo stato di cose? viene ancora da chiedersi. In parte degli scrittori stessi, certo, che magari per inclinazione sarebbero dei rispettabili imbianchini, se non si ostinassero, in un mondo dove la sostanza è l’apparenza, a eleggere, tra tutte le forme di svendita, quella alla portata di qualsiasi pivello appena scolarizzato. Solo che, per ascendere al Gotha dell’arte, devono passare sotto le forche caudine dell’editor, rigoroso custode del Tempio, e dispensatore di pillole auree racchiuse in uno stupido decalogo. Che prescrive l’imperativo della prima persona, o a rigore anche della terza purché non ingombrante; sollecita testimonianze in presa diretta ma senza profondità; raccomanda di curare il plot più che la forma, rigorosamente sciolta in frasi brevi, con ostracismo delle subordinate a favore di paratattiche fesserie: affinché il lettore, che a torto o a ragione è ipotizzato di esiguo spessore cerebrale e smanioso solo di stendersi al rezzo del cotto e stracotto, non si senta, mai sia, a disagio! Né ad altro che al mercato guardano anche le scuole di scrittura, prodighe di consigli per come esprimersi tutti allo stesso modo, senza fremiti, nitore e bagliori, onde diplomare falangi di suorine col tutù, che sculettano per un posto al sole…

     L’aberrazione che Brullo intende stigmatizzare è insomma quella per cui all’approfondimento si è sostituito il rendimento, al talento l’introito, al libro impegnato quello furbo, in osservanza alla demente persuasione che la grandezza si misura con la classifica delle vendite. Ed è questo mercimonio, non inedito invero, a scatenare la furia iconoclasta del recensore. Che pur sapendo quanto la stroncatura possa essere autolesionistica e oziosa, nonché specchio dei propri difetti (ironicamente giunge a stroncare anche se stesso), contro la vile acquiescenza di una critica ossequiente o latitante, può permettersi di riesumarla dalla postazione di chi, svincolato da rapporti col potere, non ha ossequi da rendere. Egli sa bene che così facendo si espone a nefandezze, diffide e querele, in un mondo di mafiosi pavidi ma arditi in recensioni di scambio. Ma se rispolvera quella nobile arte, è per gridare il suo “no” agli scrivani paraculi, ai pedagoghi del moralismo estetico, agli omologati del verbo con turpiloquio integrato, indignato dal gorgheggio gaudioso di una mediocrità rassicurata e timorosa di avventurarsi nell’inesplorato. 

     Eccola allora la legittimazione, ultima e pratica, di queste randellate dal “forte agrume”, tese da un lato a mettere in guardia il lettore contro l’appiattimento, e invito dall’altro a valorizzare opere meritevoli, benché inaccessibili al Ninfeo di Villa Giulia. Ai santoni della banalità, nonché al lettore, Brullo vuole insomma ricordare che la letteratura con la A maiuscola non striscia per un futuro a Segrate, ma è lotta e amore, anamnesi degli abissi e catabasi negli inferni interiori. Che essa è stimmate e ferita, iato e bestemmia, ululato e affronto, dannazione e silenzio, sfondamento dell’ignoto per stanare i mostri della psiche, e non statico vezzo per anime belle. Che la grande scrittura, lungi dall’asservimento al gusto imperante, è per natura scomoda, irritante, perversamente impegnativa; e che in un tempo in cui tutto ha prezzo e pedaggio, un libro non si legge perché è banalmente “bello”, ma affinché ne esca ingigantita la nostra umanità…

     È per questa severa concezione che lo sberleffo di un impallinatore lucido e amaro si modula nell’appassionata vox clamantis di uno hidalgo scanzonato, che sferzando il tradimento della scrittura in alcuni suoi noti mestatori, romanticamente ne ribadisce il necessario, diabolico, ma vitale nutrimento. Da leggere assolutamente!   

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4 pensieri su “Elogio della stroncatura”

  1. Delle recensioni di Brullo conoscevo la stroncatura de «Il nome della rosa», ma stranamente mi pare che il nome di Eco non ci sia in questo lungo elenco di “stroncati”. Forse l’articolo appartiene a un altro libro?
    Condivido il discorso in generale della seconda metà del testo, ma mantengo le mie riserve sulla stroncatura.

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