
È possibile che un narratore, nel bel mezzo del racconto, voglia difendere una sua tesi e si metta ad argomentare come farebbe un oratore di fronte alla sua platea? Naturalmente sì, gli esempi letterari non mancano, e l’autore può affidare il compito o a un personaggio, riportandone il discorso, o intervenendo direttamente con la voce narrante. Nel caso di «Guerra e pace», per esempio, gli interventi di quest’ultimo tipo – su Napoleone, sulla presunta razionalità della storia ecc. – non si contano e sono delle vere e proprie digressioni (peraltro espunte in una edizione francese del libro, perché avrebbero annoiato il lettore: povero Tolstoj…). In realtà chiariscono il senso degli avvenimenti e hanno una relazione tematica stretta con la narrazione.
La stessa cosa accade in «Costantino. L’infante di Naissus» di Gerardo Passannante (il seme bianco, Roma 2020), anch’esso un romanzo storico. E si verifica più volte. Un esempio è dato dai due capitoli «Museo d’ombre» (citazione di un libro di Gesualdo Bufalino) e «Imprevedibili quotazioni», dove, in pratica, l’argomentazione parte dalla seconda pagina del primo e termina a metà del secondo capitolo. Occorre subito dire che l’esame della tipologia testuale in questo caso non può essere separata da quella dello stile dell’autore, fortemente letterario, per i motivi che saranno chiari più avanti.
Prima dell’esame testuale vero e proprio occorre precisare brevemente cosa si intende per «argomentazione» e dare qualche indicazione sulla trama del romanzo.
Forma e materia: due premesse.
Per stabilire che un testo o una sua parte sono argomentativi, occorre che l’intenzione dell’autore sia quella di persuadere il suo destinatario mediante un ragionamento, non certo un ordine o un’istruzione. Ciò che si vuole è sostenere la validità di una tesi (o opinione) e mostra la capacità cognitiva di selezionare gli argomenti (o prove) più pertinenti rispetto allo scopo, istituendo relazioni tra di loro. Gli esempi concreti di argomentazione sono ben noti: arringhe di avvocati, saggi di vario genere, discorsi politici, articoli di fondo, testi di propaganda, alcuni messaggi pubblicitari. Un discorso argomentativo ben formato include un’apertura introduttiva, una giustificazione (parte centrale che include argomenti, opinioni, fonti, riserve, regole generali, o garanzie, ecc.), chiusura (cioè la conclusione, in cui la tesi viene ribadita e confermata). Soprattutto un’argomentazione letteraria può adoperare linguaggio connotato, figure retoriche, un particolare stile sintattico.
Veniamo al libro. In pieno IV secolo, dopo l’abdicazione di Diocleziano, i personaggi di cui ci parla Passannante stanno facendo i conti con le complesse e spietate regole della tetrarchia (il governo dell’impero diviso in quattro, con due augusti e due cesari): impossibile che un figlio erediti il trono dal padre (sicché Costantino, figlio dell’augusto Costanzo, ormai morente, non avrebbe alcun diritto di successione), matrimoni obbligati, come quello di Costanzo con Teodora (per cui egli ha dovuto lasciare la compagna Elena). In realtà, per presentare al lettore l’intricata vicenda, l’autore deve andare da un personaggio all’altro, ricordando fatti pregressi e talvolta anticipando quelli futuri, e in questo carosello di attori sembra di assistere a un gioco in cui nessuno vince davvero, perché tutti prima o dopo perdono la loro partita con la Storia.
Una Storia oscillante che atterra e solleva.
Ci sono personaggi come l’imperatore Massimiano, che dall’alto del trono di augusto ha dovuto scegliere il nulla dell’abdicazione, per volontà di Diocleziano; altre figure minori, come Severo e Massimino, invece, sono state inaspettatamente elevate al rango di cesare (dunque futuro augusto). L’autore si propone di dare qualche ragguaglio sul modo in cui la Storia permette ad alcuni, per quanto immeritevoli, di assurgere sorprendentemente alle cariche più alte, per poi abbatterli poco dopo, mentre chi è in cima alla piramide oggi, può sempre cadere rovinosamente a terra domani.
Poco avanti nel testo, ecco la tesi:
I capricci della fortuna sono di tal fatta, che dall’ombra si può d’un colpo emergere, come vi si può, altrettanto repentinamente, precipitare.
Fin qui un’introduzione-apertura, che ha dapprima immesso il lettore nel contesto narrativo, poi gli ha proposto una generalizzazione di tipo filosofico, in cui è facile ritrovare una vera e propria tesi. L’assunto principale è che non esiste gloria imperitura, la sorte e gli eventi storici decidono per noi, e sempre in modo improvviso e imprevisto.
L’autore porta, a questo punto, un piccino esempio (in realtà andrà avanti fino alla fine del capitolo e oltre!), quello del balletto mediatico nostrano. Può accadere che degli istrioni televisivi scompaiano all’improvviso dagli schermi televisivi: è l’inizio della fine, ma il telespettatore dipendente non può saperlo. Dopo un po’ di tempo sentirà poco o niente la mancanza del suo volto amico; anzi, lo starà dimenticando completamente. Ormai si concentra su altri protagonisti, nuovi avvoltoi, che in modo suadente lo affascineranno, dandogli la convinzione che egli esiste solo grazie a loro. Dunque, il tradimento nei confronti del primo “grande” personaggio è compiuto; non verrebbe più nemmeno riconosciuto per strada. La smemoratezza sarebbe definitiva. Così si conclude il capitolo «Museo d’ombre»:
Così il tempo dissipa i fantasmi: così la novità si accampa spudoratamente sugli spettri; e non rispetta più l’eternità transeunte di chi si illuse persona.
In questo ragionamento si può riconoscere facilmente un argomento esemplificativo basato sulla corrispondenza tra il mondo dei media e il corso della Storia. Si tratta di una regola generale implicita, come spesso accade nelle argomentazioni: tutto ciò che riguarda la massa è una valida indicazione di come vanno le cose tra gli uomini nello scorrere del tempo, e di conseguenza nella Storia. Spesso un argomento include in sé una giustificazione, è un ragionamento contenente a sua volta una sua tesi particolare, ed è così anche qui: chi da tempo ha un indubbio successo, un giorno verrà dimenticato del tutto e non ne rimarranno neppure le tracce.
Il capitolo successivo, «Imprevedibili quotazioni», investiga il fenomeno contrario: colui che balza all’improvviso alla ribalta televisiva, ottenendo subito una grande fama e un vasto seguito, invadendo la vita degli spettatori, cadrà anche lui, e più velocemente. I teledrogati si pasceranno del nuovo “attore” per sentirsi vivi, per trovare in lui la ragione del loro esserci. Al nuovo venuto verrà perdonato tutto, almeno fin quando sarà al culmine della sua parabola, perché la sua discesa nella dimenticanza sarà fulminea. La tesi dell’autore-io narrante viene ribadita e praticamente replicata in questa conclusione-chiusura:
…solo un effetto prospettico ci impedisce di soppesare la reale inconsistenza degli spettri che, prima di carambolare nel nulla, sfrecciano sul piano della Storia, seminandovi una traccia effimera, al pari di tutti, anteprima della dimenticanza universale.
L’universalizzazione del messaggio è evidente. Più avanti, l’autore estende il paragone allo stesso narrare dello scrittore, che non può dimenticare l’alternanza delle fortune nella Storia. Compare qui come corollario il tema del raccontare, che non può prescindere dai rapporti tra gli uomini, soggetti alla fatale legge del tempo. E l’io narrante ci riconduce ai personaggi del romanzo, a cominciare da Massimiano, che dalla grandezza passata cercherà invano di risalire la china, andando incontro a una gran brutta fine.
Questo secondo argomento completa specularmente il discorso, sommandosi al primo. E il suo finale, come detto, riprende la tesi dell’esordio, quella già citata del capitolo precedente sui capricci della fortuna.
Un andamento binario, dunque, strutturalmente assai semplice, per una digressione che porta l’esempio protratto del mezzo televisivo e dell’effimera consistenza dei suoi personaggi. La visione della dimenticanza universale, in realtà, trova ben altre conferme in tutto il «Declino», per cui questa breve deviazione, se suona come una conferma o un’anticipazione, non può essere avulsa dal contesto, affinché riveli tutta la sua pregnanza.
Ma c’è di più, se si prende in esame la sua particolarità espressiva e stilistica.
La televisione fa schifo? Facciamolo solo capire…
In letteratura avviene spesso che le scelte espressive riescano a veicolare significati aggiuntivi rispetto a ciò che il testo dice apertamente nel suo dettato testuale. È sicuramente il caso del brano esaminato, ben oltre la tesi già vista e riassunta nella citazione manzoniana di una Storia che atterra e solleva.
Va dapprima considerato come emblematico il parallelismo tra il corso della Storia e le vicende del mezzo televisivo; il paragone sembra andare verso la metafora continuata, o addirittura verso l’allegoria. Ciò rende ancora più salda, a ben vedere, la persuasività, cioè la forza illocutiva dell’argomentazione.
Ma il microtesto ci riserva sorprese notevoli, non nell’andamento sintattico delle frasi, meno complesso rispetto alla prosa degli altri capitoli, ma nelle figure retoriche e nelle scelte lessicali, con riferimento particolare alla loro connotazione (la risonanza emotiva delle parole). Il mondo televisivo, infatti, è visto in modo molto critico (i riferimenti appartengono al capitolo «Museo d’ombre»): il balletto mediatico nostrano, burbanzosi gradassi… con indubbio prestigio (ironico), la cara larva, i nuovi spavaldi, l’antico simpaticone (ironia), look… adulterato in absentia, alone nebbioso, i grugni meno amabili, la cara sembianza (ironia), un’associazione malaugurata, adorate larve ipnotiche, esiliata dallo schermo, entrano di prepotenza, allucinazioni ipnagogiche, antiche fisime, corroso… dall’anamorfosi. Il mondo televisivo è dunque per l’autore un mondo squallido e miserabile, in cui lo spettatore dipendente trova non solo l’evasione, ma l’alienazione da sé. Il tema non è nuovo, ma qui in filigrana appaiono soprattutto gli spettri della Storia, che creano solo falsi miti e illusioni. La parte del capitolo «Imprevedibili quotazioni» aggiunge critica a critica, con un’ironia ancora più insistita, che tocca spesso il sarcasmo, nei confronti dell’ipocrisia del mezzo televisivo (si dà sollazzo a giornalisti e fotografi assetati, quasi avesse scovato il sale dalla terra e la si fosse concentrata nella sua bocca, l’asfissiante passerella del quotidiano ecc.) e una maggiore amarezza in merito alle quotazioni della celebrità. Sottintesa a questa fitta trama soprattutto lessicale (ma c’è anche l’anafora di Sono loro nel primo capitolo a enfatizzare l’assunto dell’autore) è una tesi più o meno nascosta tra le righe relativa all’odierno mezzo televisivo: iniquo mezzo di comunicazione, che crea dipendenza per un popolo di teledrogati. In fondo questa presa di posizione in senso tecnico non viene giustificata e quasi non la si nota, ma “è” nel testo, e nemmeno troppo implicita. È una convinzione che l’autore si sente di condividere con il suo lettore implicito, o ideale.
Nel brano analizzato, Passannante ha fatto ricorso a una retorica che in genere non gli appartiene. Non troviamo in queste quattro pagine l’oltranza stilistica del prosatore elegante e forbito, ma l’esercizio di un’inventiva che ammette ogni tanto anche un registro medio-basso, enunciazione delle tesi esclusa. Passannante ha voluto avvicinare il suo messaggio al lettore di oggi, ma senza abbassare la guardia e scegliendo forme espressive per lui inconsuete, ma che in ogni caso gli appartengono.
BREVE SITOGRAFIA
https://www.treccani.it/enciclopedia/testi-argomentativi_(Enciclopedia-dell%27Italiano)/
2 pensieri su “QUANDO AD ARGOMENTARE È UN NARRATORE: BREVI OSSERVAZIONI SU DUE CAPITOLI DEL ROMANZO STORICO «COSTANTINO. L’INFANTE DI NAISSUS» DI GERARDO PASSANNANTE (a cura di Vittorio Panicara).”