Nessuno, tra noi, aveva più grandi sentimenti; ma tutti provavano sentimenti monotoni. “È ora che finisca”, dicevano i nostri concittadini: in periodo di flagello, infatti, è naturale augurarsi la fine delle sofferenze collettive, e davvero essi si auguravano che finissero. Ma questo si diceva senza il fuoco o l’acre sentimento del principio, e soltanto con alcune ragioni che ancora ci rimanevano chiare, molto poche. Al grande e selvaggio slancio delle prime settimane era succeduto un abbattimento che si avrebbe avuto torto di prendere per rassegnazione, ma che tuttavia era una sorta di provvisorio consenso. I nostri concittadini si erano messi al passo, si erano adattati, come si dice: non c’era modo di fare altrimenti. Avevano ancora, naturalmente, l’atteggiamento della sciagura e della sofferenza, ma non ne risentivano più l’aculeo. D’altronde, il Dottor Rieux, a esempio, considerava, giustamente, che il male era proprio questo, e che l’abitudine alla disperazione è peggiore della disperazione stessa […]. In verità, tutto per loro diventava presente; bisogna dirlo, la peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia; l’amore, infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi.
Albert Camus, La peste