Era da ormai un po’ di tempo che mi proponevo di intervistare Roberto Pazzi, un autore che ho avuto modo di leggere e ascoltare più volte, e sempre con grande piacere. Quando arrivo a casa sua non posso che rimanere stupita per l’atmosfera che si respira, accogliente, calda, con pile di libri ovunque! E inizio subito a saltare con l’occhio di pila in pila per sbirciare i titoli e per vedere se ne riconosco qualcuno.
Dopodiché ci accomodiamo nello studio dove troneggia una bellissima scrivania, alle cui spalle vedo copie di suoi romanzi tradotti in tante lingue: spagnolo, tedesco, russo, arabo, coreano… E non mi stupisce la presenza di tanti piccoli orologi e clessidre, visto che il tempo, il possibile, la memoria, l’invecchiare sono tra le piccole “ossessioni letterarie” di questo autore. È qui che inizia la nostra intervista…
Tu sei uno di quei pochi scrittori contemporanei che hanno coltivato parallelamente prosa e poesia. Da quale di queste due forme di scrittura hai iniziato?
Il primo incontro con la scrittura è avvenuto con il tema dettato dalla maestra in terza elementare. Di solito si trattava di una riflessione sulla regione in cui ci trovavamo, nel mio caso l’Emilia Romagna, oppure su una ricorrenza, come quella del 2 novembre per i defunti. Così era la scuola elementare di quei tempi. Ma la cosa bella era questa: che appena la maestra aveva finito di dettare io iniziavo a scrivere, scrivere e scrivere, con la furia di inseguire con la mano il pensiero che era più veloce. Facevo dei temi lunghissimi: così il giorno del tema, che era mercoledì, era il giorno della gloria, perché i miei erano i temi più belli della classe e la maestra li portava in giro per leggerli un po’ per tutta la scuola. Tutta questa gloria però la pagavo con la depressione caspica del lunedì, che era invece il giorno del problema di matematica, materia di cui capivo poco o niente, e di cui avevo terrore. Insomma i doni si pagano… ma da lì ho capito che le parole mi piacevano, non solo per scrivere ma anche nel parlare: quando d’estate discutevo con i miei cuginetti, a parole vincevo sempre io. Ciò che poi mi fece proseguire in questa dimensione di parole e riflessione fu il contatto con i classici, in particolare la lettura precoce dei Promessi sposi, che trovavo in casa, e con cui potevo supplire alla solitudine che un po’ ha segnato la mia gioventù.
Quindi è giusto dire che sei stato prima “prosatore” e poi poeta?
Sì, la poesia è arrivata direi alle medie, quando ho imparato a conoscere le poesie di Montale, e in particolare Meriggiare pallido e assorto. Quando il docente la lesse, capii subito che quello descritto in quei versi era il paesaggio in cui io stesso ero nato ad Ameglia: come non riconoscere quei muretti con i cocci aguzzi tipici di questa regione fatta tutta a terrazze che si arrampicano sulle pareti di roccia? Un ambiente del tutto diverso da quello pianeggiante in cui vivevo in inverno.
Attraverso Montale ho imparato a sentire la poesia. Poi c’è stato l’incontro fortunato, a soli 14 anni con uno dei migliori poeti italiani della generazione postbellica, Vittorio Sereni. Io divenni amico di Silvia, la figlia, alla quale feci leggere i miei primi versi. Lei ne rimase incantata e li mostrò al padre, che ne rimase colpito e mi volle conoscere. Ricordo ancora che mi disse “c’è ancora un po’ di raffreddore per Garcia Lorca, ma se continui così ti aiuto a pubblicare”. Ovviamente, immaginare di essere pubblicato a soli 16 anni su una rivista fu fantastico, e lui divenne il mio padre spirituale. Continuavo a scrivere versi e affliggevo questo pover’uomo che viveva a Milano, mandandogli in busta chiusa ogni settimana le mie poesie. Quando poi avevo 23 anni, Sereni scrisse una nota introduttiva ad una serie di poesie uscite su Arte e poesia, la rivista diretta da Alessandro Bonsanti.
Che periodo era quello per chi voleva diventare un poeta?
Quella era una stagione contraria alla scrittura in versi. C’era la contestazione, e scrivere era considerato un fatto borghese. Sanguineti continuava ad accusare i poeti classici per portare alla ribalta autori minori, come Gian Pietro Lucini, che il Novecento aveva trascurato ma che ben si allineavano alla prospettiva marxista con la quale indagava la poesia. Sanguineti ha dei demeriti incredibili: ha allontanato dalla poesia una grande quantità di lettori che finivano per credere che la parola poetica altro non fosse che le parole crociate da settimana enigmistica che scriveva lui. Pur essendo stato un grande critico, come poeta fu un fallimento.
Procedendo poi nella tua attività, il grande successo arrivò con Cercando l’imperatore, giusto?
A 11 anni lessi la storia della famiglia Romanov e la strage che li investì. Mi sentii profondamente toccato da questa tragedia che distrusse una famiglia che per me era il simbolo di una regalità che ora non conosciamo più. Così scrissi questo romanzo nel giro di un mese. All’inizio nessuno volevo pubblicarlo perché rappresentava la rivoluzione russa dalla parte di chi l’aveva persa, con antipatia verso chi invece l’aveva fomentata e vinta: Lenin e Marx.
Scrivere poesia in una stagione che la rigettava e guardare alla storia dalla parte dei vinti: si direbbe proprio che la tua scrittura si ponga sempre in una prospettiva controcorrente o alternativa… :
Esatto, non mi piace seguire l’opinione maggioritaria, e preferisco ritagliarmi un’altra strada. Sono incapace di restare nel gregge e di adeguarmi al consenso comune. Cercando l’imperatore è il romanzo in cui ho mostrato come le cose sarebbero potute andare adottando una prospettiva quasi surreale che introduce “il perturbante”, l’unheimlich di freudiana memoria, nella narrazione. In effetti i miei romanzi tendono ad avere una cifra visionaria e fantastica, perché mi è sempre piaciuto provare a “correggere” la realtà, creandone una nuova. Così ho fatto anche con Vangelo di Giuda, un altro mio romanzo molto tradotto all’estero (sono 26 in tutto le lingue in cui sono state tradotte le mie opere), uscito da Garzanti nell’89. Con esso ho cercato di rispondere alla domanda ben chiara che fa da filo rosso a tutta la vicenda: “Perché Cristo non ha scritto niente, ma, come Socrate, ha solo predicato?” E ho dato la mia risposta sotto forma di un grande atto di accusa contro la Chiesa che ha di fatto tradito Cristo. Dopodiché arrivò Conclave, che racconta la difficoltà di trovare un nuovo papa, a causa dei vescovi che non riescono a mettersi d’accordo e di animali mostruosi che invadono i locali dei bagni termali in cui si radunano. Nel complesso sono due le tematiche che mi stanno più a cuore: il Sacro e la Storia. Tuttavia ho fatto un’incursione anche nel mondo longobardo con Mi spiacerà morire per non vederti più, che narra la vicenda di due cugini, di cui il primo, bisessuale, si innamora di un palafreniere che però è il fidanzato di sua figlia.
Una delle tue ultime fatiche è il romanzo Verso Sant’Elena…
Esatto, è la storia delle ultime ore di uno dei più grandi condottieri dell’umanità, un prestito che il mondo antico ci ha donato, visto che è della stessa razza di Cesare e Alessandro Magno: Napoleone Bonaparte. Il tutto nasce dalla scoperta casuale di un romanzo giovanile scritto proprio da Napoleone a 20 anni e pubblicato da Sellerio col titolo Clisson ed Eugénie. La spada e la penna erano le due vie che questo eroe poteva percorrere. Scelse la spada. Tuttavia, ora che il tempo sul campo di battaglia è finito, torna alla penna, e nella cabina della nave che veleggia verso Sant’Elena si materializza proprio Eugénie (dietro il cui personaggio si cela il suo primo amore), che scrive i sogni che affollano la sua mente in quella notte di navigazione
Lasciamo i tuoi lettori con qualche parola sul Roberto Pazzi lettore?
Le mie opere preferite sono 5: la Recherche di Marcel Proust, che leggo e rileggo senza uscirne mai davvero. Di questo capolavoro mi affascina la riflessione sul tempo, la prospettiva psicanalitica e il ritratto che il personaggio fa della Francia prebellica. Il secondo libro che salverei è Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, perché nessuno come lei ha capito l’importanza dell’eredità lasciataci dall’età argentea. Seguono Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati, uno straordinario romanzo metafora della vita, vista come attesa della felicità; e Il maestro e Margherita di Michail Bulgàkov, che mi riporta alla cultura russa e al suo senso assoluto del bene e del male. Quello che più mi avvicina a quest’ultimo autore è l’idea di scegliere personaggi del sacro e reinserirli nella modernità. Giusto ora sto scrivendo un romanzo che affronta questa tematica, che parla di un Dio che ritorna sulla Terra nelle fattezze di un vecchio signore e vuole provare in un albergo le esperienze della carne. Last but not least uno dei miei canoni della lettura è sicuramente Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez, che riesce a dare vita ad un continente attraverso una fantasia sfrenata che ha un sapore che ricorda gli Inca e i Maya, e li mescola sapientemente con il retroterra della cultura spagnola.
Ci sono dei generi letterari che non frequenti mai?
I gialli e i polizieschi che non amo né da lettore né da scrittore. Questo tipo di opere mi annoia, perché c’è uno schematismo che porta ad un’unica soluzione e a una divisione netta tra bene e male. Mi sembra tutto troppo facile, troppo netto; la realtà è più complicata (“la realtà è uno gnommero” come dice Gadda) e spesso bene e male si scambiano ed è difficile trovare il bandolo della matassa.
Finisce qui la nostra intervista con Roberto Pazzi, ma la chiacchierata continua lontano dal microfono con tutta una serie di gustose e interessanti divagazioni. Sulla letteratura ovviamente; ma anche sull’attualità, sulle contraddizioni di una società, falsamente progressista, ma ancora tanto ancorata a ipocriti moralismi e a pregidizi ancora duri da sradicare. Tutti aspetti che lo scrittore-poeta, così attento al passato come al presente, non smette di denunciare in tutti i suoi libri.
L’ha ripubblicato su l'eta' della innocenza.
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